Sud America. Il Cile boccia la nuova Costituzione. Boric riparte da un grande accordo
Su un punto concordano gran parte del popolo che domenica sera ha invaso le strade di Santiago per celebrare la vittoria del «no» e il presidente Gabriel Boric, il “politico del cambiamento”: il processo costituente continua. Nel 62 per cento dei cileni che ha scelto l’opzione “rechazo” al referendum, ci sono molti elettori del giovane leader di sinistra nonché un’ampia fetta di quanti, poco più di ventidue mesi fa, si erano espressi in massa per riscrivere la Costituzione vigente. Lo dicono i numeri. È stato l’80 per cento del Paese a chiedere di redigere un nuovo testo. E il 56 per cento ha scelto Boric alle presidenziali di meno di un anno fa. Nel 2019, inoltre, milioni di persone erano scese in piazza contro le ingiustizie prodotte dal sistema neoliberista, definito proprio nella Costituzione. Solo il 38 per cento ha, però, gradito la bozza realizzata dalla Costituente. Anche in questo caso la matematica aiuta a comprendere le ragioni di una stroncatura così netta. I 155 esponenti dell’Assemblea – metà donne e metà uomini per la prima volta nella storia e 17 rappresentanti dei popoli indigeni – hanno optato per la somma di tanti numeri primi. Ovvero, in termini, sociologici, hanno puntato sull’aggregazione delle istanze di numerose minoranze, troppo a lungo escluse. Hanno, tuttavia, mancato di individuare un minimo comune denominatore intorno al quale coagularle. In pratica, il grande assente in questo lungo anno di lavoro della Costituente è stata la mediazione. Un paradosso per un percorso iniziato proprio con un accordo ampio fra le principali forze politiche per chiedere ai cittadini, tramite una consultazione, di pronunciarsi sull’attuale Carta, scritta durante la dittatura, seppur più volte riformata.
Certo, le critiche degli oppositori – un arco che va dalla destra ai settori più moderati del centro-sinistra – si sono concentrate su alcuni aspetti specifici: plurinazionalità, sistema di giustizia indigeno, indennizzi per la restituzione delle terre ai popoli nativi, decentramento. L’obbligatorietà del voto, inoltre, portando alle urne i più distanti dalla politica, ha, in qualche modo, favorito il «no». Il calo di popolarità di Boric – emblema della stagione di rivolte – e la crisi economica, infine, hanno fatto il resto. Nessuno di questi elementi, però, da solo sembra giustificare una stroncatura tanto netta da sorprendere i sondaggisti. A rendere i nodi critici ancor più duri da accogliere è stato il modo, apparentemente unilaterale, in cui sono stati proposti. Lo ha riconosciuto lo stesso Boric nel discorso pronunciato dopo la diffusione dei risultati. «Mi impegno a fare di tutto, per costruire, insieme al Congresso e alla società civile, un nuovo itinerario costituente da cui scaturisca un testo che, raccogliendo quanto appreso finora nel processo, riesca a interpretare le istanze della gran maggioranza dei cittadini». E ha sottolineato: «Oltre le legittime differenze, so che prevale la volontà di dialogo e incontro». Ieri, il presidente ha incontrato i vertici di Camera e Senato per decidere come e da dove ripartire.
Poi ha annunciato un «imminente» rimpasto del proprio governo che potrebbe portare alla sostituzione di alcuni dei fedelissimi, dalla ministra degli Interni, Izkia Siches e Giorgio Jackson, responsabile dei rapporti con il Parlamento. Le prossime tappe non sono ancora definite. L’ipotesi preferita da Boric è quella di affidare la stesura di una nuova Carta ad un’altra Costituente. Per questo, però, ha necessità di un sostegno ampio in Congresso. Più rapida ma non gradita alla sinistra, la soluzione di far scrivere il testo a un comitato di esperti. In extremis – in caso di mancato accordo – si potrebbe optare per una riforma sostanziale dell’attuale testo. Improbabile, invece, che quest’ultimo resti uguale, come vorrebbe l’ultra-destra, rappresenterebbe una sconfessione drastica del percorso politico intrapreso negli ultimi anni oltre che del governo in carica. Alla fine, però, su quale strada s’incamminerà il Cile, dipenderà dalla capacità dei partiti di trovare una sintesi condivisa. E del presidente di renderla possibile. Se l’accordo del 2019 è stato determinante per arrivare alla Moneda, ora su un nuovo patto sociale Boric si gioca il presente e il futuro della presidenza.