Pakistan. Il caso di Asia Bibi, la censura ha «silenziato» le violenze
Proteste a Karachi, nel novembre scorso, contro Asia Bibi (Ansa)
Un ruolo difficile, quello dell’informazione in Pakistan, sottoposta alle pressioni di un potere che sa essere persuasivo quando ritiene necessario intervenire con la censura. Come per l’ordine diffuso ai mass media pachistani che ha anticipato la sentenza di assoluzione della Corte Suprema nei confronti di Asia Bibi, la donna cattolica a rischio di impiccagione per l’accusa di blasfemia dopo oltre nove anni trascorsi in carcere.
Le manifestazioni e le violenze organizzata da gruppi religiosi estremisti subito dopo il verdetto il 31 ottobre sono state controllate a fatica dalle forze di sicurezza prima che intervenisse una tregua negoziata con il governo, ma nessuno nel Paese ha potuto scriverne o trasmetterne immagini. Nella notte prima della decisione dei giudici, un messaggio inviato via Whatsapp dal direttore dell’Autorità per la regolamentazione dei media elettronici ha invitato tutti i responsabili dell’informazione a non “coprire” eventi nella giornata successiva che fossero connessi con la vicenda di Asia Bibi.
Come descritto dal giornalista e analista politico Ahmed Tamjid Aijazi che ha la sua residenza fuori dal Pakistan, «il giorno della sentenza, queste indicazioni sono state applicate con il massimo impegno da tutti, dai cronisti come dai più noti anchorman e i media hanno ignorato completamente quanto successo nelle strade del Pakistan, ponendo un velo tra la realtà e la popolazione». In altri casi, però, i mass media garantiscono un ruolo di informazione e di vigilanza primario, ad esempio nel rendere nota l’interminabile sequenza di abusi verso i settori più deboli della società.
Come quelli contro tre donne cattoliche – due giovani cugine e la madre di una di esse – accusate di furto poco dopo Natale da un notabile musulmano del villaggio di Chak Jhumra, nella provincia del Punjab. Torturate, sono state poi arrestate e detenute arbitrariamente per due settimane in un posto di polizia. Saima, una delle ragazze, lavorava da tre anni e mezzo come domestica in casa di Rana Saif, imprenditore con connessioni politiche, ma in vista del suo matrimonio previsto a febbraio aveva comunicato al datore di lavoro che lo avrebbe lasciato, suscitandone ira e volontà di rivalsa.
Secondo quanto dichiarato alla polizia da Rana Saif, il 27 dicembre la ragazza avrebbe sottratto gioielli per un valore di 1,9 milioni di rupie pachistane, circa 12mila euro.
Per questo, Saima è stata prima torturata con la madre Kausar Rehana e la cugina Salma che viveva con loro, per costringerle a confessare il furto e poi nuovamente maltrattate nella centrale di polizia dove – per evitare che all’esterno si venisse a conoscenza dell’accaduto – il 9 gennaio è stato emesso un mandato di arresto. Il caso è stato denunciato da attivisti per i diritti umani e evidenziato dai mass media e, dopo il coinvolgimento di Ajaz Augustine, ministro per i Diritti umani del Punjab, l’ispettore responsabile è stato sospeso dal servizio ed è stata avviata un’inchiesta. Restano ancora sotto sorveglianza Kausar e la figlia Saima, che si troverebbe in cattive condizioni fisiche. Rana, uno zio e l’ufficiale di polizia responsabile della custodia sarebbero però riusciti a costringerla a firmare con l’impronta del pollice un documento che nega la necessità di una visita medica per verificarne lo stato di salute.