Cinque anni fa, il 25 agosto 2008, l’inferno si scatenava sulle comunità cristiane, in maggioranza tribali, dello Stato indiano orientale di Orissa. In particolare sul distretto di Kandhamal. Ci sarebbero voluti mesi prima che i roghi si spegnessero definitivamente e con essi la peggiore ondata persecutoria che avesse mai colpito la cristianità indiana. Con conseguenze drammatiche: un centinaio di morti (56 per il governo), migliaia di feriti, un gran numero di stupri e la fuga di 55mila abitanti trasformatisi in profughi, molti in modo permanente. Furono allora 400 i villaggi svuotati dai battezzati, oltre 5.600 le abitazioni distrutte e 256 gli edifici religiosi bruciati o rasi al suolo. (La cronaca continua a registrare casi di violenze ai cristiani. L’ultima tre giorni fa, a Karon, dove un gesuita e due suore sono stati aggrediti da circa 150 persone),Origine o pretesto della campagna di violenza, l’uccisione, nella notte del 23 agosto, di un leader estremista indù e di quattro suoi collaboratori attivi nell’opera di riconversione delle minoranze all’induismo nella cittadina di Tumudi Bandh. Di quelle morti si era da subito assunta la responsabilità il movimento di ribellione maoista, ma questo non è servito a salvare le comunità tribali e cristiane dalla persecuzione. Che, è ormai chiaro dopo le meticolose indagini di attivisti locali e nazionali, era stata pianificata da tempo. Al punto da far ritenere che la stessa uccisione di Laxmanananda non sia stato che un pretesto cercato. Come per i massacri che avevano toccato le ben più consistenti comunità musulmane nel Gujarat sei anni prima, il cadavere del "martire" induista era stato fatto viaggiare per decine di chilometri in un itinerario che sarebbe stato ricalcato dalle squadre – anche prezzolate e provenienti da altre aree del paese – che hanno cercato di cancellare la presenza cristiana nel Kandhamal e riportare così il distretto sotto il controllo dell’induismo radicale, sostenuto da proprietari terrieri e imprenditori che rivendicano il potere economico sulle terre e sulle risorse.Oggi l’insicurezza resta elevata, mentre i colpevoli dei massacri e delle violenze sono in maggioranza liberi di colpire ancora, nella completa impunità o dopo condanne modeste. Un esempio è quello di Manoj Pradhan, parlamentare dell’Orissa, esponente di primo piano locale del Bharatiya Janata, partito di ispirazione induista. Accusato di nove omicidi, è libero su cauzione e in grado di minacciare e intimidire i testimoni dell’accusa e i suoi oppositori.In secondo luogo, il governo non è riuscito a restituire fiducia nella popolazione e a garantirne la sicurezza. Infine, la ricostruzione delle abitazioni e delle fonti di reddito ha ignorato molte delle vittime. In questa situazione, molti non hanno altra scelta che ricorrere all’emigrazione oltre i confini del distretto e dello Stato. Con il rischio, già concretizzatosi per molte giovani donne, di essere rapite o convinte con l’inganno per essere avviate a forme di sfruttamento.Come ricorda Ram Puniyani, attivista per i diritti umani, tra i più autorevoli promotori dell’armonia tra gruppi e classi nel suo paese, «le vittime erano cristiani di condizioni assai modeste, in maggioranza
dalit che vivevano sotto la soglia della povertà. I loro diritti, continuamente erosi, erano comunque garantiti dalla Costituzione dell’India e riconosciuti anche internazionalmente».«Le caratteristiche dell’ondata di violenza che li ha colpiti – prosegue Puniyani – dimostrano chiaramente che gli attacchi furono mirati e diffusi. La loro esecuzione frutto di una pianificazione meticolosa, preceduta da appositi incontri dei responsabili che si erano garantiti anche supporti finanziari e altre forme di sostegno mesi prima del 25 agosto 2008. Per questo e per altre ragioni, la violenza del Kandhamal ha le caratteristiche di un "crimine contro l’umanità". Inoltre, le atrocità commesse ricadono nella definizione internazionale di "tortura"».La giustizia in questi anni – e nonostante le pressioni internazionali – ha tuttavia segnato il passo, diventando per molte vittime un ulteriore elemento di frustrazione e pena. John Dayal, attivista presidente dell’Unione dei cattolici di tutta l’India ed esponente del Consiglio per l’Integrazione nazionale, sottolinea come «le due commissioni inquirenti designate dal capo del governo locale Naveen Patnaik hanno avuto in comune la fretta con cui hanno tessuto le lodi di Swami Laxmanananda Saraswati e la fiducia che le violenze non siano state motivate da odio religioso ma da un conflitto per le terre tribali tra i Kondh, in maggioranza indù, e i dalit Pano, convertiti in molti casi al cristianesimo». Un atteggiamento, quello dei commissari, che ha a tal punto disgustato la comunità cristiana da spingerla inizialmente al boicottaggio delle commissioni e solo successivamente ad accettarne la presenza non avendo altre piattaforme per esprimere il proprio dolore e la propria angoscia.D’altra parte, il ruolo nei massacri di movimenti che riconoscono nell’
hinduttva (induità) la propria ideologia è stato riconosciuto da tempo dal premier Patnaik, che nei primi mesi dopo le vicende del 2008 aveva escluso dal suo governo gli elementi più estremisti in senso religioso. Davanti alle richieste pressanti dell’Assemblea legislativa dell’Orissa, Patnaik fu costretto ad ammettere che sulla base delle indagini «membri di Rashtriya Swayamsevak Sangh, Vishwa Hindu Parishad e Bajrang Dal erano convolti nelle violenze». Sempre secondo i dati forniti dal primo ministro, la polizia ha nel tempo arrestato 85 esponenti dell’Rss, 321 membri del Vhp e 118 del Bajrang Dal. Di essi solo 27 restano oggi in carcere.