Ucraina. Le madri di Bucha: «Ci hanno allontanato, poi hanno ucciso i nostri figli»
La sepoltura sommaria di civili uccisi a Bucha
Più che noncuranza sembra una sfida. Quasi nessuno a Odessa corre più nei rifugi quando suonano le sirene e si avvertono i colpi della contraerea e le brevi esplosioni che fanno tremare le trincee di sabbia e vibrare i cavalli di frisia. Le campane suonano ininterrottamente per avvertire del pericolo imminente, mentre tre navi militari vengono avvistate a poche miglia. Qualcuno fa il segno di croce e prosegue nella camminata, scendendo dalle colline al mare. I più giovani continuano ad ascoltare musica dagli auricolari, impermeabili alla minaccia. Come se dopo 40 giorni la guerra sia ineluttabile e insieme parte della quotidianità con cui convivere.
Ma nei pochi bar aperti non si parla d’altro: Bucha. Il timore più grande in tutta la regione di Odessa è quello di scoprire nei villaggi passati al setaccio dalle forze russe crimini efferati di misura e orrore superiori a quelli documentati a Bucha e nelle altre aree sulla rotta per Kiev.
A Mykolaiv, tra Odessa e la Crimea, dopo la strage di civili colpiti vicino al mercato dalle bombe a frammentazione, neanche negli ospedali ci si sente al sicuro: le granate sono piovute a ridosso dei reparti.
Il massacro di Bucha è stato contestato ancora ieri dalla macchina della disinformazione, messa in crisi da un nuovo video girato da un drone prima dell’11 marzo, mentre la cittadina era occupata dalle forze russe. Si vede un uomo percorrere in bicicletta l’oramai tristemente nota via Yablunska. I militari di Mosca sono raggruppati in una strada laterale e da lì abbattono l’uomo. A dimostrare che il video è stato girato mentre le forze russe ancora si trovavano in città, contrariamente a quanto asserito dal ministro degli Esteri russo, Sergeij Lavrov, vi sono altre immagini riprese da un drone l’11 marzo in cui si vede che la casa accanto al punto in cui era stata uccisa la vittima viene distrutta. Mentre era ancora in piedi nel video dell’uccisione.
Gli investigatori internazionali continuano a raccogliere riscontri. La lista di casi si allarga. Il 27 febbraio, le forze russe hanno radunato sei uomini nel villaggio di Staryi Bykiv, nella regione di Chernihiv, e li hanno giustiziati sommariamente. Tetyana, una testimone di Novyi Bykiv, che si trova di fronte a Staryi Bykiv, appena oltre il fiume Supiy, ha parlato con i parenti di quattro degli uomini uccisi. Ha detto a Human Rights Watch che il 27 febbraio il ponte tra Novyi Bykiv e Staryi Bykiv è stato fatto saltare in aria e le forze russe hanno bombardato entrambi i villaggi.
«Conosco bene Viktoria, la madre di un giovane che aveva poco più di 20 anni e si chiamava Bohdan – racconta Tetyana –. Lei mi ha raccontato che i soldati le hanno detto di aspettare vicino a casa mentre prendevano Bohdan per interrogarlo. Hanno detto la stessa cosa ad altre famiglie. Invece, hanno prelevato lui e altri uomini, li hanno portati all’estremità del villaggio e li hanno uccisi». Viktoria, intervistata separatamente, ha confermato i dettagli: «Ci hanno detto di non preoccuparci, che li avrebbero spaventati un po’ e poi li avrebbero lasciati andare». Le donne si sono allontanate per meno di 50 metri. «Poi abbiamo sentito gli spari». Hanno trovato i corpi riversi. «Tre erano su un lato dell’edificio, ma non mio figlio e mio cognato. Siamo andati dall’altra parte e li abbiamo trovati». Come fa una madre, Viktoria si è gettata sul ragazzo, e ha scoperto che «le sue tasche erano vuote, non aveva più il telefono, né le chiavi né i documenti di identità». Quindi è corsa dai soldati chiedendo che almeno le facessero portare via il corpo: «Ma hanno rifiutato».
Dmytro, 40 anni, è un testimone chiave. Perché l’orrore l’ha perseguitato. Lui e la sua famiglia sono fuggiti dalla città di Bucha, pesantemente bombardata, il 7 marzo. Ha detto che non conoscevano vie di evacuazione sicure, quindi hanno camminato a piedi, avvolti in lenzuola bianche e sventolando per aria stracci bianchi in segno di non belligeranza. Dopo alcuni chilometri hanno raggiunto il villaggio di Vorzel. Qui si sono rifugiati nel seminterrato di un edificio a due piani, insieme ad altri residenti. «C’era una donna che aveva ferite sul petto e alle gambe – ha riferito Dmytro –. Altre persone nel seminterrato hanno spiegato che le avevano sparato proprio lì, il giorno prima, quando i soldati russi avevano fatto irruzione nello stesso seminterrato e hanno lanciato una granata fumogena all’interno».
Non bastasse, si stanno moltiplicando i casi di avvistamento di mine antiuomo. «Una rara circostanza: un Paese non fa parte del Trattato sulla messa al bando delle mine del 1997 utilizza l’arma sul territorio di una Paese che è parte del trattato», commentano da Human Rigts Watch. L’Ucraina ha firmato la convenzione per il divieto di questi ordigni il 24 febbraio 1999 ed è diventata uno Stato parte il 1 giugno 2006.
Le mine adoperate dai russi in Ucraina sono di nuova concezione. Si chiamano POM-3 , note anche come “Medallion”. Sono dotate di un sensore sismico per rilevare una persona in avvicinamento ed espellere una carica esplosiva in aria. La detonazione della carica e dei frammenti di metallo può causare morte e mutilazioni in un raggio di 16 metri. L’ordigno è dotato di un dispositivo di autodistruzione che innesca l’esplosivo a distanza di ore o di giorni. Anche quando i russi dovessero ritirarsi, la loro presenza sarà segnalata da altre stragi.