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Libano. I raid sfiorano le zone dei cristiani: 92 morti in 24 ore

Camille Eid giovedì 26 settembre 2024

Rais israeliani a sud di Tiro, nel sud del Libano

Il raggio d’azione bellico si allarga a zone prima risparmiate. Se la strategia israeliana puntava, prima, a colpire le basi di Hezbollah in Libano, adesso nel mirino ci sono finite aree molto più estese, e i bombardamenti sono arrivati a minacciare anche quelle piccole enclavi e i tanti villaggi sciiti all’interno delle regioni abitate prevalentemente dai cristiani. E il ministero della Sanità di Beirut rende noto che negli attacchi israeliani delle ultime 24 ore nel sud del Libano sono rimaste uccise 92 persone, mentre i feriti sono 153.

Insomma quei centri che i libanesi chiamano “l’ambiente favorevole” al Partito di Dio. Ieri, i caccia israeliani hanno lanciato missili sulla località sciita di Maaysra, a 140 chilometri dal confine con Israele, gettando nel panico l’intero distretto. Il Kisrawan, infatti, è a stragrande maggioranza cristiana (il 98 per cento dei residenti) e la sede del Patriarcato maronita si trova lì, a soli 15 chilometri dal luogo colpito.

Le affiliazioni politiche dettano le diverse reazioni tra i cristiani. Gli sfollati del Sud hanno trovato maggiore accoglienza a Zghorta, nel feudo del leader maronita Suleiman Frangieh, rispetto a quelle del Libano centrale in cui le simpatie sono divise tra il capo delle Forze libanesi Samir Geagea, assai critico verso Hezbollah, e il generale Michel Aoun, da tempo alleato del partito sciita. Un altro bombardamento ha preso di mira Ras Osta, non lontano dal monastero di San Marone in cui ha vissuto San Charbel, uno dei luoghi di pellegrinaggio più famosi del Libano. Un altro ancora le colline di Joun, un centro cristiano-sciita vicino allo storico convento melchita Saint-Sauveur.

«Duemila sfollati del Sud hanno trovato rifugio qui», racconta ad Avvenire padre Abdo Raad, che per anni è stato parroco proprio a Joun. Mentre ci parla arriva il nuovo bilancio del raid. Non più quattro vittime, ma nove. Padre Raad controlla l’elenco. «Riconosco tra di loro un responsabile locale di Hezbollah, ma non credo lo fossero tutti gli altri otto. In quel palazzo c’erano sfollati, ma anche operai siriani». Alla domanda se i cristiani siano restii ad accogliere gli sfollati per non rischiare una ritorsione, risponde che «esiste effettivamente una spaccatura tra i cristiani, e più in generale tra i libanesi, sulle scelte del Partito di Dio, ma questo non ci impedisce di avere amici sciiti».

«Nella vicina località maronita di Mazmoura, ad esempio, il sindaco ospita a casa sua 16 sfollati sciiti e ha mandato altri 17 dai suoi parenti a Beirut ». Come responsabile dell’associazione Annas Linnas (“La gente è per la gente”), padre Raad sta devolvendo gli aiuti raccolti in Italia ai civili in fuga verso Beirut e Zahle, nella Beqaa.

«Distribuiamo medicinali e pacchetti alimentari e assicuriamo interventi chirurgici. Abbandonare chi è nella necessità equivale a rinunciare alla nostra umanità». La voce di Youssef B. giunge con leggeri disturbi da Rmeish, uno dei quattro villaggi cristiani (gli altri sono Ain Ebel, Debel e Qaouzah, ndr) che si trovano sul confine con Israele e che vivono principalmente della coltivazione di tabacco. «1.200 famiglie – dice – vale a dire l’80 per cento degli abitanti, hanno deciso di rimanere qui». «Vogliamo badare alle nostre case, ai nostri campi, ai nostri ulivi. Insomma, a quel che ne rimane».

Ad agosto, 5.000 ulivi sono andati distrutti dal fuoco divampato a causa dei raid israeliani ai confini del villaggio. «Siamo stati relativamente risparmiati», dice. «Ho l’impressione che le ripetute visite del nunzio apostolico in Libano, monsignor Paolo Borgia, ci abbiano assicurato la protezione del Papa».

Ma non mancano i timori, soprattutto se Israele dovesse tagliare le vie di rifornimento lungo il fiume Litani. «C’è già penuria di carburante e la farina comincia a scarseggiare. A casa abbiamo fatto una scorta di alimentari per un mese. Speriamo che il conflitto finisca prima».