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MODA E DIRITTI. I jeans sabbiati uccidono ancora «Non rispettati gli impegni»

Luca Liverani venerdì 30 marzo 2012
​«Il divieto che abbiamo adottato ci impone comunque di monitorare le condizioni in cui viene svolta la sabbiatura nelle fabbriche dei nostri produttori, pur non essendo più ammesso questo tipo di trattamento». Era il 2010 quando H&M, uno dei grandi marchi della moda, prometteva solennemente di rinunciare al sand-blasting, l’uso di sabbia sparata ad aria compressa sui jeans per ottenere il look consumato e vissuto tanto di moda.Una tecnica pericolosissima per la salute dei lavoratori, perché provoca silicosi fulminanti: la Turchia l’ha messa al bando nel 2009 dopo che uno studio medico aveva attribuito alla sabbiatura dei jeans 52 decessi e 1.200 casi di malattia conclamata. Solenni impegni dello stesso tono di quello di H&M erano stati presi, tra le altre aziende, anche da Levi’s, C&A, Esprit, Lee, Zara e Diesel. Ma l’apparente successo della mobilitazione internazionale «Killer jeans», i jeans che uccidono, lanciata dal cartello di associazioni e sindacati Clean Clothes Campaign, la Campagna abiti puliti, si è rivelata un vittoria apparente. Dalla verifica sul campo in sette stabilimenti di sabbiatura in Bangladesh – con foto e interviste agli operai – è emerso ora che la sabbiatura non è stata affatto sospesa, qualunque siano state le istruzioni dei committenti. O i marchi hanno raccontato bugie, oppure non hanno verificato il rispetto del cambio di indirizzo. «La situazione è molto grave», dice Deborah Lucchetti, portavoce della campagna Abiti Puliti. «Al contrario di quanto sostengono pubblicamente – spiega – i marchi non sono disposti a modificare lo stile dei loro prodotti. E nemmeno a rivedere tempi e costi di produzione, per permettere ai fornitori di adottare metodi alternativi che comportino lavorazioni più sicure. Il risultato è che continuano a incentivare l’uso, clandestino o alla luce del sole, della sabbiatura». I ricercatori inviati dalla Campagna Abiti Puliti hanno accertato dunque che negli stabilimenti esaminati si lavora senza adottare le minime precauzioni. In Europa il tenore di silice nella sabbia non può superare l’1% e le restrizioni severe sulla sabbiatura hanno spinto da tempo l’industria dell’abbigliamento a delocalizzare la produzione. In Bangladesh la sabbia invece può contenere fino al 95% di silice. Le mascherine protettive, per quanto insufficienti, non vengono fornite dalle fabbriche e gli operai le devono comprare a loro spese, le riusano anche quando sono inservibili, o usano semplici fazzoletti.Molti stabilimenti poi usano ancora la sabbiatura manuale, coi lavoratori che indirizzano il bocchettone. Là dove viene usata la sabbiatura meccanica (che dovrebbe avvenire in locali fisicamente separati dagli addetti), una tecnica adottata dopo il divieto chiesto dai committenti, tutto avviene in ambienti aperti e senza dispositivi di sicurezza. Alcune fabbriche eseguono il sand-blasting di notte per dare meno nell’occhio. Molti lavoratori sono consapevoli dei rischi, ma li affrontano in cambio di paghe più elevate. Il cambio di rotta non può riguardare solo le aziende: «Gli stati – dice Deborah Lucchetti – devono vietare definitivamente la sabbiatura. E l’Unione europea l’importazione di jeans sabbiati».