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LIBERTA' RELIGIOSA. I cristiani dell’Orissa vivono ancora nella paura

Stefano Vecchia domenica 23 agosto 2009
Era e sarebbe dovuto rimanere un evento locale, parte delle tante violenze che quo­tidianamente scuotono l’India, forse par­te di una faida interna al movimento nazionali­sta oppure davvero un atto di 'liberazione' del­la guerriglia contraria all’oppressione socio-reli­giosa ed economica sui tribali e fuoricasta. Inve­ce l’uccisione, la notte del 23 agosto dell’anno scorso in un villaggio dell’Orissa, di Laxmanan­da Saraswati, autoelettosi 'swami' (maestro di fe­de) divenne spunto per la caccia ai cristiani. Lo swami era infatti al centro di una connessione tra interessi politici, economici, personali sotto la copertura dell’hinduttva (induità), dell’estre­mismo religioso che cerca continuamente moti­vi per una vera e propria pulizia etnica col prete­sto della fede. Inutile l’attribuzione data imme­diatamente ai guerriglieri naxaliti, maoisti, co­me poi avrebbero essi stessi confermato in più oc­casioni. Occorreva trovare un capro espiatorio e, se non direttamente colpevoli, i cristiani dove­vano essere almeno mandanti dell’assassinio del 'sant’uomo' e di quattro personaggi a lui vicini. Così, nei giorni successivi, l’Orissa ha vissuto la peggiore persecuzione anticristiana della storia dell’India post-coloniale. L’intero distretto di Kandhamal, area a prevalenza tribale, venne at­traversato da violenze senza precedenti: almeno 70 i morti, secondo le fonti ecclesiali, 4.500 abi­tazioni date alle fiamme, 50mila gli sfollati, qua­si 20mila feriti. Intere famiglie bruciate vive, ca­se e raccolti dati alle fiamme, stupri, torture, spa­rizioni. Che non hanno risparmiato uomini e donne di Chiesa: molti i sacerdoti e le suore ag­grediti, nei villaggi o nell’assalto a 150 edifici re­ligiosi andati distrutti; altri dispersi e mai più ri­trovati. Sei i pastori protestanti uccisi. Come ricorda anche monsignor Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar so­to la cui giurisdizione si trova il Kandhamal: «I religiosi sono stati l’obiettivo principale dei fon­damentalisti, che hanno scatenato la loro sadica brutalità su sacerdoti e suore, arrivando persino ad uccidere, come nel caso del nostro padre Ber­nard Digal, morto per le percosse subite». Tuttavia il contagio fondamentalista doveva e­stendersi nei mesi successivi anche ad altre aree fuori dall’Orissa, controllato con difficoltà dalle forze dell’ordine e dai governi locali, sovente re­stii ad applicare con decisione la legge per timo­re di dispiacere alle forze politiche che cavalca­no da sempre il radicalismo religioso. Non a ca­so si doveva registrare una ripresa delle persecu­zione durante la campagna elettorale per le ele­zioni locali e nazionali che, avviate in autunno e conclusesi a maggio di quest’anno, dovevano ri­portare al potere in diversi stati e rafforzarne la maggioranza a livello centrale il Partito del Con­gresso guidato da Sonia Gandhi. Ora l’Orissa è tornato a fronteggiare i problemi di sempre che sono soprattutto povertà, sotto­sviluppo, ma anche assedio di troppi interessi al­le terre tribali e a chi, a partire dalla Chiesa loca­le, della difesa dei deboli ha fatto una risposta concreta alla chiamata evangelica. In un certo senso, la tragedia dell’Orissa, il mar­tirio di tanti suoi figli, ha restituito visibilità alla discriminazione cui sono fatti oggetto i cristiani nell’immenso Paese asiatico e l’avvio di una ri­flessione sullo status delle sue minoranze reli­giose.Non tutto è risolto, oggi, in Orissa e nel Kandhmal. Resta tanta paura per i fatti del re­cente passato; restano l’incertezza del futuro e ancora troppi problemi aperti. «La situazione è ancora terribile – dice padre Manoj Nayak, sa­cerdote tribale –. Sappiamo che circa 20mila cri­stiani vivono come sfollati o mendicanti in varie città dell’Orissa e anche in Stati limitrofi, ma al­cuni persino a Mumbai o a Delhi. Molti sono an­cora in ghetti per cristiani creati dal governo pre­so alcuni centri abitati, non essendo in grado di proteggerli in un loro eventuale ritorno ai villag­gi d’origine» Occorre tuttavia guardare oltre, perché la convi­venza torni ad essere una realtà, ma su basi e con consistenza nuove. «Per il 23 agosto abbiamo in­detto il ’Giorno della pace e dell’armonia’, perché fatti come l’uccisione dello Swami Laxmananda Saraswati e le violenze anti-cristiane non devo­no accadere mai più – ricorda ancora monsignor Cheenath –. Dobbiamo combattere le tendenze che generano tali crimini estremi. Dobbiamo la­vorare per l’amore, che significa lavorare per la pace».