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I conti con la storia. I Caraibi sfidano Londra: vogliamo riparazioni per lo schiavismo

Redazione Esteri giovedì 24 ottobre 2024

Re Carlo III durante il recente viaggio in Australia

I conti con la storia, e con i suoi orrori, da liquidare in moneta sonante - non solo cospargendosi il capo con la cenere della retorica - anche a un paio di secoli di distanza. Monta al vertice dei Paesi del Commonwealth, organizzazione nata sulle spoglie del defunto impero britannico, il dossier sulle ipotetiche riparazioni multimiliardarie a carico di Londra per i danni inflitti dai suoi avi ai domini coloniali attraverso l'infamia del lucroso traffico degli schiavi fra Africa e America. Il summit, ospitato quest'anno nelle remote Isole Samoa, in mezzo al Pacifico, coinvolge buona parte dei leader dei 56 Stati che fanno parte di questo sodalizio a maglie larghe in rappresentanza d'una popolazione complessiva di circa due miliardi e mezzo di persone. E si tiene alla presenza del 75enne re Carlo III in persona, presidente d'onore permanente, spintosi fin lì malgrado la diagnosi di cancro d'inizio anno, e a costo di sospendere le cure a cui si è stato sottoposto in questi mesi con esiti "incoraggianti", sulla scia della tappa australiana d'una prima visita intercontinentale intrapresa dopo l'annuncio della malattia. Ma se in Australia gli imbarazzi della protesta anti-monarchica, culminata nella plateale contestazione solitaria di una senatrice aborigena fin dentro il Parlamento di Canberra, avevano riguardato esclusivamente il sovrano e la regina Camilla, a Sapia, capitale samoana, il mirino appare puntato soprattutto sul nuovo primo ministro britannico, Keir Starmer: titolare pro tempore del potere esecutivo britannico a Downing Street, il cui governo liberal rischia di ritrovarsi costretto ad affrontare un rinnovato dibattito - ideologicamente scomodo - sugli indennizzi. Questione dalla quale il Regno Unito cerca da sempre di sfuggire.

A cavalcare il dossier sulla schiavitù è un cartello di Paesi caraibici del Commonwealth, ex colonie particolarmente colpite da quella tragedia e già in transizione verso forme di governo repubblicane; mentre l'elezione di un nuovo segretario generale africano (per la quale sono in corsa diplomatici del Lesotho, del Gambia e del Ghana, dopo il mandato dell'ex ministra laburista Patricia Scotland, nera ma britannica) sembra poter dare un spinta in più. La richiesta, per ora, è di avviare una "discussione seria" al tavolo dei leader. Non senza affrontare il concetto di "giustizia riparatoria", oltre il quale Londra teme possa emergere la pretesa d'impegni onerosi e giuridicamente vincolanti. Di qui il tentativo di deviare su una più generica bozza di dichiarazione finale, già approntata, in cui ci si limita a riconoscere a parole "le comuni esperienze storiche relative all'abominevole traffico e proprietà di schiavi e alla spoliazione delle popolazioni indigene".

Frederick Mitchell, ministro degli Esteri delle Bahamas, insiste tuttavia su una formulazione più aperta al "confronto con la volontà dei popoli", dicendosi fiducioso alla Bbc che Starmer possa cambiare posizione, magari nell'ambito di un approccio graduale a un tema da riproporre in primo piano al prossimo vertice del Commonwealth, in programma ad Antigua e Barbuda. Tema separato, eppure parallelo, rispetto a quello delle "scuse formali" sollecitate da tempo a casa Windsor, come erede delle colpe storiche della corona, per i misfatti d'epoca imperiale: cosa che neppure Carlo, al netto della propria sensibilità più moderna, si è spinto in questi anni a concedere, limitandosi a condannare colonialismo e schiavismo con espressioni di rammarico per evitare a sua volta l'ombra di conseguenze legali incontrollabili.
Intanto, lo studio di un'istituzione privata come l'University of West Indies indica una stima di potenziali richieste di riparazioni da parte di 14 Paesi caraibici fino addirittura a 18.000 miliardi, da mettere in conto sulla carta, almeno in parte, al governo britannico: calcolo siderale, quanto irrealistico in concreto, ma avallato niente meno che da Patrick Robinson, giudice giamaicano alla Corte Internazionale di Giustizia.