Colombia. I «campesinos» assediano Bogotà Il governo tratta
Bogotà e Cali non potrebbero essere più distanti. Nella capitale, dove le manifestazioni sono state meno tese, il presidente Iván Duque ha iniziato il processo di dialogo con tutte le parti politiche e sociali per mettere fine alla crisi che da dieci giorni scuote il Paese. I primi ad arrivare al Palazzo di Nariño, sede dell’esecutivo, sono stati i leader del centro-sinistra. Una sorta di riunione preliminare dato che i partiti d’opposizione sono stati marginali nella protesta, guidata dal Comitato per lo sciopero nazionale, un movimento civile, che ingloba differenti gruppi sociali.
Nata come fenomeno urbano contro la riforma fiscale – poi ritirata –, la rivolta ha intercettato il malessere della Colombia rurale. I contadini si sono uniti alle manifestazioni: blocchi stradali sono stati organizzati in varie parti della nazione per impedire gli approvvigionamenti. A Cali, epicentro della ribellione e del- le violenze, sono arrivate schiere di campesinos e indigeni, esasperati dal ritardo nella realizzazione della riforma agraria promessa dagli accordi di pace del 2016. Nonché, vittime dello stillicidio da parte dei gruppi armati che, nell’inerzia dello Stato, hanno occupato il vuoto lasciato dalla guerriglia smobilitata. Là, in mezzo alle barricate, il dialogo avviato dal presidente è un’eco lontana.
A Puerto Rellena, ribattezzata Puerto Resistencia, brucia come una ferita il ricordo di Marcelo Agredo e Jeirson García, 17 e 13 anni, uccisi dalla polizia schierata in forze dal governo. Ventiquattro delle 31 morti censite finora dall’inizio delle dimostrazioni dall’organizzazione Indepaz sono avvenute a Cali. E i dimostranti rifiutano di smobilitare fino a quando non terminerà la repressione. E non verrà sciolto l’Esmad, corpo delle forze di sicurezza già accusato di eccessi durante le proteste di fine 2019. Anche sindacati e agricoltori sono scettici sulla mano tesa di Duque e rivendicano l’adozione di un salario minimo e il ritiro della nuova legge sanitaria. Al di là delle richieste specifiche, sul banco degli imputati c’è l’intero impianto socioeconomico colombiano.
Un assetto apparentemente stabile e florido, dal punto di vista contabile, almeno fino all’irrompere delle pandemia. Basato, tuttavia, sull’esclusione di quasi la metà della popolazione, che vive in condizioni di povertà e lavora in nero, e di “interi pezzi” di nazione, ostaggio di una violenza pluridecennale.
Questo paradosso ha alimentato la guerra civile più lunga d’Occidente. Perciò i colloqui per porvi fine, tra il 2012 e il 2016, hanno cercato di correggerlo tratteggiando una serie di ampie riforme. Attuate, però, finora solo in minima parte. Se fin dall’inizio il percorso è stato farraginoso, la vittoria del conservatore Duque, critico verso gli accordi e vicino al loro principale detrattore, l’ex presidente Álvaro Uribe, ha impresso un ulteriore rallentamento. Questo spiega anche lo scetticismo con cui una parte del movimento di protesta ha accolto l’apertura dell’esecutivo.
Quest’ultimo ha prima dispiegato le forze di sicurezza per stroncare sul nascere la rivolta. La strategia, però, non ha prodotto effetto. Anzi, ha esasperato la rabbia della piazza: alcuni gruppi hanno reagito con violenze e atti vandalici. Di fronte all’insurrezione generale, ora, Duque sta giocando la carta della mediazione. I margini di manovra sono, tuttavia, stretti. A un anno dalle presidenziali, l’ultradestra di Uribe invoca il pugno di ferro per non perdere consensi fra l’elettorato più radicale. Privo di una maggioranza parlamentare, il leader, la cui popolarità è scesa al 33 per cento, deve barcamenarsi tra a retorica incendiaria dell’ex mentore e la necessità di evitare il caos. Anche perché l’onda lunga della pandemia ha inferto un duro colpo all’economia, cavallo di battaglia della sua amministrazione.
Di fronte alla difficile congiuntura, la Chiesa colombiana ha convocato, ieri, una giornata di preghiera per la pace e la riconciliazione. In tutte le parrocchie sono state celebrate Messe e veglie. L’episcopato e il nunzio, Luis Mariano Montemayor, inoltre, si sono uniti virtualmente per recitare insieme il Rosario. E, in più occasioni, hanno rinnovato l’appello profetico rivolto alla nazione nello storico viaggio del 2017: «È ora di sanare ferite, di gettare ponti, di limare differenze. E’ l’ora di spegnere gli odi, rinunciare alle vendette e aprirsi alla convivenza basata sulla giustizia, sulla verità e sulla creazione di un’autentica cultura dell’incontro fraterno».