Mondo

CORNOD'AFRICA. I bimbi del campo di Dadaab vittime dell’inferno somalo

Matteo Fraschini Koffi domenica 24 luglio 2011
«L’angelo della morte me lo ha portato via ieri», racconta Halima, giovane donna somala e mamma di quattro bambini troppo spaventati per staccarsi dalla sua veste. «Il mio quinto figlio, Hassan, stava male da qualche mese. L’ho ricoverato in ospedale settimana scorsa, ma non ha resistito». Dallo sguardo di Halima non sembra trasparire né tristezza né rabbia. Solo una dolce rassegnazione. Da quando lei, insieme a decine di migliaia di altri profughi, ha deciso di lasciare la Somalia, sono state poche le tragedie che non ha dovuto affrontare. Durante un cammino durato ventiquattro giorni, Halima e la sua famiglia hanno sfidato la morte passo dopo passo. Se non erano le iene, erano i leoni. Se non era la fame, era la sete. «Siamo stati comunque fortunati», conclude mentre accarezza a turno tutti i suoi figli. È difficile accettare che in un posto come Dadaab, il campo di rifugiati più grande al mondo, la parola «fortuna» possa essere espressa dalle labbra secche dei suoi residenti. In quest’area a Nord-est del Kenya, dove sabbia e arbusti rappresentano l’unica vegetazione per centinaia di chilometri verso l’orizzonte, le inermi carcasse degli animali giacciono a terra semi-spolpate, in attesa di essere completamente scarnificate dagli avvoltoi del cielo e della terra. I rifugiati come Halima, ormai più di 400mila, continuano ad arrivare a una media tra i 1.500 e tremila al giorno. Ogni profugo, per quanto possibile, deve essere registrato e “catalogato” sia dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), sia dagli ufficiali del governo keniota. Dopo aver preso le impronte digitali e aver scattato la foto di ognuno, gli operatori danno ai rifugiati un braccialetto colorato a seconda della sezione del campo a cui saranno destinati. Agli ultimi arrivati, anche se non registrati, spetta una razione di cibo per una settimana, mezza saponetta e dei teli con cui coprirsi. Da quando il campo di Dadaab è stato aperto vent’anni fa per ospitare specialmente somali, etiopi, e sudanesi, il flusso migratorio non si è mai arrestato. Ma con la siccità di quest’anno, la più grave dagli anni Cinquanta assicurano le Nazioni Unite, il numero di profughi è aumentato in modo vertiginoso. Sono oltre dieci milioni le persone colpite dall’emergenza, un fatto che ha sorpreso persino i veterani del mondo umanitario. Ogni mattina, decine di Land Rover che trasportano operatori umanitari e materiale di base, si mettono in fila per firmare la loro uscita dal cancello principale delle zone riservate alle agenzie e dirigersi verso le tre sezioni in cui si divide Dadaab: Hagadera, Dagahaley e Ifo. Nonostante il governo keniota abbia promesso l’apertura di un altro campo, Ifo-2, l’iniziativa non è stata ancora approvata ufficialmente. «La possibilità di aprire Ifo-2 verrà discussa in Parlamento mercoledì», spiega Omar, operatore keniota nel settore dell’istruzione per Avsi, l’organizzazione non governativa italiana che fa parte del consorzio per l’emergenza di Agire: «Speriamo che i nostri politici facciano appello alla loro umanità perché non ci siamo mai trovati in una situazione tanto grave». Nel centro maternità di Hagadera, Abdi è l’unico uomo. Sua moglie è morta dopo dieci giorni di cammino ed è stata sepolta dal resto della famiglia.«Era già molto malata e non è riuscita a sopportare la fatica di camminare sotto il sole», racconta Abdi, rimasto con due figlie e sua mamma di ottantasei anni. Nello stanzone in cui si curano i bambini più a rischio, Sarah, la figlia di Abdi, è sdraiata su un materasso: malnutrizione acuta è la diagnosi. I ventisei giorni di cammino, spesso senza acqua né cibo, hanno messo a dura prova il suo piccolo corpo. Ogni tanto, le pupille di Sarah spariscono verso l’alto per la sofferenza che prova, e tornano a fissare il vuoto dopo qualche attimo di sopportazione. Poiché Sarah non riesce a mangiare, i medici le hanno infilato un sottile tubo con cui viene periodicamente nutrita. A tre anni, la bambina di Abdi pesa meno di quattro chili. Nella branda accanto a lei, invece, un bambino di sette mesi, a causa della stessa malattia, pesa più di cinque chili. La mamma lo abbraccia e gli copre il pancione infetto. Lo stadio di carestia decretato dalle agenzie umanitarie Onu ha tra i parametri per la dichiarazione la morte di almeno due bambini al giorno su diecimila persone. Più a Nord, in Somalia, le statistiche superano abbondantemente questi numeri, qui si tenta di azzerarle. «Molti di loro sono famiglie di pastori e agricoltori», dice Ibrahim, uno dei gestori dell’ospedale di Hagadera che è finanziato da varie organizzazioni tra cui l’International rescue committee: «Le scarse piogge hanno impoverito il terreno e hanno ucciso il loro bestiame. L’unica scelta che avevano era quella di spostarsi da un’altra parte». I somali scappano anche dalla guerra civile che sconvolge il Paese dal 1991. Sulla strada hanno dovuto negoziare non solo con la morte ma anche con il pericolo di essere reclutati dall’al-Shabaab, il gruppo ribelle di matrice qaedista che controlla la maggior parte del Paese. «Non voglio tornare in Somalia», assicura Abdi: «Tutti i miei parenti sono scappati da lì». Alla periferia del campo di Ifo, sono invece raggruppati gli ultimi rifugiati. Ismail è appena arrivato con la sua famiglia: una moglie e quattro figlie. Domani, quando gli uffici delle registrazioni riapriranno, per loro inizierà una nuova vita. Difficile, ma una vita.