Un'altra guerra. Messico, 100mila desaparecidos in un «conflitto che non c’è»
Protesta a Città del Messico per 43 studenti del Collegio rurale per maestri di Ayotzinapa scomparsi. Era il 26 aprile del 2017
Centomila sono gli abitanti di Ancona, Novara e Piacenza: su 7.904 Comuni italiani, 7.860 non raggiungono una simile popolazione. Centomila sono gli spettatori che può contenere lo stadio Olimpico. Centomila sono i desaparecidos in Messico in sedici anni di narco-guerra.
Uomini e donne né vivi né morti, semplicemente scomparsi. La democrazia messicana ha triplicato le cifre dei generali argentini, nell’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale.
A scomparire, però, non sono più i dissidenti politici, reali o presunti, bensì persone comuni. Chiunque è a rischio.
Nel Paese cerniera tra Nord e Sud dell’America e del mondo si combatte una guerra atipica quanto cruenta che tanti, però, rifiutano di vedere. Ad affrontarsi non sono eserciti e nemmeno milizie contrapposte bensì organizzazioni criminali che cercano di eliminarsi a vicenda con il supporto di pezzi di istituzioni catturate nei decenni precedenti.
Anche se la narco-guerra messicana ha un inizio preciso, il 22 gennaio 2007, ben 5.611 giorni fa, quando l’allora presidente, Felipe Calderón dichiarò guerra ai narcos, essa affonda le radici nei settant’anni ininterrotti di egemonia del Partito revolucionario institucional (Pri), terminati nel 2000.
Fino ad allora, per restare al potere, aveva creato un sistema che, mediante la corruzione e la minaccia selettiva, includeva al suo interno tutta la società. Crimine organizzato incluso. Quest’ultimo poteva portare avanti il proprio business purché restasse nei limiti imposti dal Pri. Con la fine del sistema, i rapporti di forza si sono invertiti.
E i narcos, già dentro lo Stato, hanno finito per conquistarne interi segmenti che non agiscono più nell’interesse dei cittadini bensì del gruppo delinquenziale di riferimento.
Quando Calderón ha deciso di schierare i militari contro le mafie, il risultato è stata un’escalation senza precedenti: una media di oltre cento morti al giorno. Centododici quest’anno, secondo la segreteria di governo, a dispetto della pacificazione promessa dall’attuale presidente, Andrés Manuel López Obrador, per un totale di circa 400mila morti dal 2007.
Oltretutto vari esperti accusano Calderón di essersi accanito “selettivamente” sulle organizzazioni criminali per favorire l’ascesa del cartello di Sinaloa. Lo stratega della narco-guerra, Genaro García Luna, è in cella negli Usa, in attesa di processo con l’imputazione di aver passato informazioni al super-boss Joaquín El Chapo Guzmán. Il gruppo di quest’ultimo, a lungo il più potente, compete con il cartello di Jalisco Nueva Generación per la conquista del Messico.
I narcos non puntano solo al controllo delle rotte attraverso cui la coca attraversa il Paese nel viaggio verso gli Usa. Grazie a una serie di bande minori, esercitano un potere di fatto sui territori, regolandone la vita.
In questa strategia di conquista rientra la “desaparición”, arma per terrorizzare i cittadini e scoraggiarli dal collaborare con il gruppo nemico. Con un’impunità al 98 per cento, chiunque si sente legittimato a delinquere. Ai desaparecidos dei narcos, dunque, si sommano migliaia di persone fatte scomparire in seguito a liti private e vendette. Nel Messico della narco-guerra, la violenza è il grande regolatore sociale.