«In vent’anni di Africa non ho mai visto una situazione del genere», racconta con grande preoccupazione Leo Capobianco, responsabile di Avsi in Kenya e coordinatore dei progetti nel campo per rifugiati di Dadaab, in collaborazione con l’organizzazione Agire. «Dal punto di vista professionale ma soprattutto da quello umano: non avrei mai pensato di ritrovarmi coinvolto in una crisi di queste dimensioni». Parole gravi e angosciose quelle di Capobianco, che riflettono l’essenza del campo profughi più grande al mondo, quello di Dadaab, considerato senza eufemismi un inferno in terra.«Le testimonianze dei rifugiati che soccorriamo ogni giorno hanno dell’incredibile – continua il responsabile dell’organizzazione, tornato a Nairobi per partecipare alle riunioni d’emergenza delle agenzie umanitarie, e pronto a ripartire già oggi per il campo con altri aiuti – la storia che mi ha più colpito è quella di una famiglia il cui padre e figlio sono stati letteralmente mangiati dalle iene durante il tragitto tra il sud della Somalia e Dadaab». Capobianco racconta anche di aver visto migliaia di rifugiati che, dopo aver camminato per settimane in una delle aree più aride del Corno d’Africa, sono arrivati in condizioni di estrema povertà, spesso senza neanche uno straccio di vestito per coprirsi il corpo. Avsi e Agire sono tra le organizzazioni umanitarie che da tempo lavorano in tutte e tre le sezioni del campo di Dadaab con progetti principalmente mirati all’educazione. «Da tre anni stiamo costruendo scuole e provvediamo alla formazione di centinaia d’insegnanti – spiega ad
Avvenire Capobianco – nonostante questa crisi epocale abbia colto tutti di sorpresa, teniamo duro e mandiamo avanti i nostri progetti con tutte le nostre forze». Da oggi, tra l’altro, è anche possibile donare 2 euro tramite sms telefonando al numero solidale 45500 (da cellulari Tim, Vodafone, Coopvoce o da reti fisse Telecom Italia e Teletu).L’emergenza umanitaria in cui è stato risucchiato il campo di Dadaab sta peggiorando giorno dopo giorno. Ai più di 400 mila rifugiati già presenti nel campo, quotidianamente se ne aggiungo tra i 2 e i 3mila. La maggior parte di loro fugge dalla Somalia, l’ex colonia italiana in guerra da più di vent’anni, e che in almeno due regioni ha raggiunto questa settimana lo stadio ufficiale di "carestia", l’ultimo relativo alle emergenze umanitarie. Le agenzie delle Nazioni unite, oltre ad aver fissato una riunione d’emergenza-crisi per lunedì, hanno dichiarato ieri che per fermare il sempre più prorompente flusso di profughi saranno costrette a far cadere gli aiuti dagli aerei che sorvoleranno il sud della Somalia. Queste zone sono occupate dal gruppo di ribelli qaedisti dell’al Shabaab che, nonostante abbia permesso la distribuzione di viveri e medicinali nelle proprie aree, non sembra garantire la completa sicurezza per gli operatori sul territorio. Una nota della Caritas Italiana, da anni impegnata nel Corno d’Africa, oltre ad aver lanciato una raccolta di fondi, ha invitato a riflettere sulle cause strutturali di tali sofferenze: «La dipendenza dall’esterno per l’approvvigionamento di cibo, l’innalzamento dei prezzi, le situazioni di conflitto, e i cambiamenti climatici».Sono infatti innumerevoli le sfide che il popolo somalo, dall’inizio della guerra civile nel 1991, continua ad affrontare. Martedì sera, il primo ministro Abdiwali Mohamed Ali ha reso pubblica la lista del nuovo Governo federale di transizione somalo (Tfg). Proprio ieri, però, gli shabaab hanno rapito nella località di Balad, Asha Osman Aqiil, appena nominata ministro somalo per gli affari della famiglia e delle donne. «È tragico che si trovi nelle mani di persone sbagliate»,ha detto un membro del Tfg sotto anonimato: «Non ci resta che pregare per la sua liberazione».