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Reportage. Hebron, la culla della frattura che ha spinto Hamas a strappare

Giorgio Ferrari giovedì 17 luglio 2014
​Un sole spietato rafforza la sensazione di solitudine, di trattenuta violenza, di invisibili insidie che si prova percorrendo la via principale di Hebron. Inutile illudersi di non essere seguiti da occhi celati chissà dove. Da anni Hebron, la capitale della vetreria e della ceramica palestinese, l’antico insediamento dove secondo la Bibbia sono sepolti Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e Lia è il rutilante palcoscenico della discordia palestinese elevata a sistema. La sua stessa storia recente rigurgita di nomi, di odii, di misfatti. Qui attorno, ad un incrocio alle porte della città sono stati rapiti e poi uccisi i tre seminaristi ebrei Eyal, Gilad e Naftali, qui i reparti speciali del Sayeret Matkal hanno frugato, perlustrato, rastrellato alla ricerca dei tre giovani, sempre qui i segugi con la stella di David hanno dato un nome agli assassini: Marwan Qawasmeh e Amar Abu Aisha, cittadini di Hebron, che forse hanno letto e a loro modo malinterpretato quel diffuso manuale di diciotto pagine messo in circolazione da Hamas in cui si suggerisce il «kidnapping» quale metodo migliore per trattare con Israele da posizioni di forza. E sempre qui le forze israeliane hanno ucciso qualche giorno fa un giovane manifestante. Pallottole vere, questa volta, non di gomma.Ma Hebron, città violenta, di tumulti, di massacri (nel 1929, durante il mandato britannico, ve ne fu uno spaventoso ai danni degli ebrei) è anche altro. È il crocevia della frattura insanabile fra Hamas e Fatah, fra il radicalismo di Gaza e la moderazione di Abu Mazen. «L’uomo più odiato della Palestina – dice Khaled Osaily, per sette anni sindaco di Hebron, ora uomo d’affari con interessi in tutto il Medio Oriente –. Abu Mazen ha fatto molti errori, il principale dei quali è stato tagliare fuori Hamas dalla mediazione con Israele e affidarsi agli egiziani, che con Hamas non hanno più grande feeling da quando Morsi è caduto e i fratelli musulmani sono stati messi fuorilegge». È vero. Qui da anni una Hamas meno intransigente faceva la fronda ai confratelli di Gaza e contemporaneamente veniva messa ai margini da Fatah, ma a rendere sempre più insanabile la frattura fra le varie anime palestinesi in Cisgiordania sono stati gli arresti di 11 deputati di Hamas. «Non solo, – dice Yasser Al-Zaatra, analista giordano di origine palestinese – gli uomini di Abu Mazen hanno fatto di tutto per impedire manifestazioni di solidarietà nei confronti di Gaza. Manifestazioni di palestinesi a sostegno di palestinesi, capisce?».La manovra di Abu Mazen ha una sua brutale coerenza: Hamas esce indebolita su ogni fronte, il sostegno egiziano e siriano non esiste più, Qatar e Turchia promettono mediazioni e aiuti finanziari, ma il movimento ora è avvolto nelle spire autodistruttive di una resistenza a oltranza, «la stessa che – dice Al-Zaatra – gli fa respingere ogni bozza di tregua». «Non siamo stati consultati – dice un ex deputato che preferisce non lasciare il suo nome – la proposta egiziana avvalorata scandalosamente da Abu Mazen significava piegarsi sulle ginocchia e sottomettersi...». La vampa del calore postmeridiano avvolge questa sorta di villaggio fantasma circondato da un’infinità di check point che è divenuto Hebron. Qui, secondo l’intelligence di Tel Aviv (ma gli 007 di Ramallah sono dello stesso parere), avrebbe dovuto scatenarsi la Terza Intifada, spina nel fianco di Israele e leva potentissima per condizionare le trattative con Hamas a Gaza. «Ma finora non è accaduto – dice il deputato – e Abu Mazen ha fatto di tutto perché non accadesse». Non sono in pochi a ritenere che i nomi degli assassini dei tre ragazzi ebrei sia stata l’Autorità nazionale palestinese a fornirli agli investigatori israeliani.Su un grande striscione è scritto Ya Yahud, Jaish Mohammed saya ’ud, ovvero «ebrei, l’esercito di Maometto tornerà». È uno slogan che sta diventando popolare fra i jihadisti di Gaza e fra i simpatizzanti di Abu Bakr al-Baghdadi, il sedicente capo del Califfato islamico. «Questa è la lebbra che corroderà Hamas dall’interno, che la obbligherà a scelte ancora più sbagliate». Il ricordo di un soffiatore di vetro che aveva l’officina alle porte di Hebron impone una sosta prima di tornare a Gerusalemme. Khaled è ancora lì, il volto arroventato dal calore del forno, le mani che rigirano il tubo di bronzo nel crogiolo e ne modellano l’abbozzo di vetro fuso nel quale imprimere una forma con la forza dei soli polmoni. «Modellare il vetro è semplice – dice – modellare gli esseri umani è molto più complicato, a volte impossibile». Ride, Khaled. Uno dei pochi a Hebron a non simpatizzare per Hamas.