Reportage. I bambini di Haiti in ostaggio delle gang: «Sparo, ma vorrei solo giocare»
Un bimbo tra il nulla e il caos nel centro di Port-au-Prince
«Il capo non lo saprà, vero?» È la prima domanda di Daniel. Non è il suo vero nome come quelli dei successivi intervistati nell'ambito del reportage con cui la Fondazione Avvenire dà il via alla campagna "Figli di Haiti": fino alla fine dell'anno, il quotidiano e il sito racconteranno i drammi e le bellezze dell'isola con articoli, interviste, un docufilm, un podcast e una mostra fotografica. Al contempo raccoglieranno fondi per mandare a scuola i piccoli ospiti dell'orfanotrofio-profugo Maison des Anges.
Daniel la mascherina bianca con cui nasconde metà del viso. Solo gli occhi restano fuori. Occhi neri e grandi, in cui si legge la paura. «Mi ha sempre trattato bene non vorrei si arrabbiasse», dice prima di accovacciarsi sulla scala di ferro nel piazzale sul retro. È un «luogo sicuro». L’edificio di un hotel tra l’aeroporto e la baraccopoli di Cité Soleil, dove Daniel è nato tredici anni fa. Proprio per la vicinanza allo scalo, fino allo scorso novembre spesso vi pernottavano gli impiegati delle poche Ong rimaste ad Haiti. Questo era prima, quando il Touissant Loverture, a qualche centinaio di metri, era in funzione. Poi, l’11 novembre, scorso, la coalizione di gang Viv Ansamble, guidata da Jimmy Chérizier alias Barbecue, ha sparato su un aereo di linea della statunitense Spirit in fase di atterraggio e la struttura è stata chiusa «temporaneamente». Ora è riaperta ma nessuna compagnia ha ripreso i voli: forse alla fine di marzo. Port-au-Prince, al momento, è isolata dal resto del Paese. Via terra non si passa perché le bande presidiano le uscite e sequestrano quanti si avventurano, a meno di pagare un lauto pedaggio. Via mare nemmeno, dato che le coste, snodo di traffici, sono “proprietà” esclusiva dei gruppi armati. L’unico collegamento – per chi ha la fortuna di potervi accedere – è l’elicottero con cui il Programma alimentare mondiale (Pam) aiuta funzionari, missionari e personale umanitario arrivati all’aeroporto di Cap Haitien, il solo agibile, a raggiungere la capitale blindata, dove la gente si sposta disperata da un quartiere all’altro per fuggire alle gang: 40mila nel giro di un mese che si sommano all’oltre un milione di sfollati interni. L’albergo, negli ultimi mesi, si è così svuotato.
«Meno occhi indiscreti», assicura Francois, il “mediatore”. È stato lui a convincere Daniel e gli amici a parlare. «È importante che raccontiate la vostra storia – afferma l’attivista trentenne -. Lo so che è difficile, anche io sono stato come voi». «Come voi», cioè un baby-soldato delle gang che comandano la capitale haitiana, dal centro alle sterminate bidonville. L’autorità dello Stato agonizzante è limitata alla manciata di quartieri residenziali arroccati sulle colline. Il resto della metropoli da quattro milioni di abitanti è nelle mani di oltre duecento milizie, nate come braccio armato delle élite politiche ed economiche e ormai fuori controllo. Nell’ultimo decennio, durante il governo di Michel Martelly prima e Jovenal Moïse poi – assassinato in una congiura di palazzo il 7 luglio 2021– hanno accumulato soldi, armi e truppe. Truppe-bambine perloppiù: la metà ha meno di 18 anni, secondo la stima dell’Unicef. E il numero dei “banditi-ragazzini” arruolati è in vertiginosa crescita: + 70 per cento nel 2024. «Non tutti sono “affiliati” cioè portano un fucile a spalla – spiega Fiammetta Cappellini, responsabile di Avsi per i Caraibi, Ong che manda avanti a Cité Soleil un ampio progetto di protezione della vittime della violenza armata, tra cui i minori a rischio di reclutamento, per i quali rappresenta una delle poche, concrete alternative –. Tanti sono “associati”, come si dice in linguaggio tecnico, ovvero compiono attività criminali di minor impatto. Spostare munizioni o fare le vedette, ad esempio. Sono, però, parte della gang a tutti gli effetti. Poi ci sono i cosiddetti piccoli “in carico”, i quali hanno un legame sporadico con il gruppo però ruotano nella sua orbita. Man mano, il coinvolgimento crescerà perché non hanno altro riferimento. Le famiglie, troppo impegnate a sopravvivere, sono assenti. Il capo, in qualche modo, è l’unico a occuparsi di loro». Più che le parole, a spiegare le ragioni dell’impennata di baby-soldati è il corpo ossuto e la faccia inquieta e affamata di vita di Daniel. E delle altre centinaia di migliaia di piccoli come lui ai quali una guerra ufficialmente mai iniziata e in apparenza destinata a non finire mai, sottrae il presente. «Sono cresciuto in mezzo alle bande – balbetta prima di sciogliersi –, come tutti a Simon Pelé».
Così si chiama uno dei 34 quartieri in cui è divisa Cité Soleil, il più noto degli slum di Port-au-Prince: almeno 250mila abitanti – ma alcuni studi parlano di 400mila – ammassati in 22 chilometri quadrati a ridosso del mare. Simon Pelé è anche il nome della gang che “governa” la manciata di baracche, fango e rifiuti in cui vivono in trentamila. Il boss, Albert Stevenson alias Djouma, fuggito lo scorso marzo dalla prigione della capitale dopo tre anni, è uno dei nove luogotenenti di Barbecue di cui è fedelissimo da ben prima che quest’ultimo, all’inizio del 2024, cercasse di riunire tutti i gruppi all’interno della federazione Viv Ansamble. Daniel non parla con lui. Sono i suoi uomini a riferirgli gli incarichi: lo impiegano come una specie di fattorino tuttofare. «Ho cominciato da poco, da quando non c’è più mia madre, lei non voleva. Ma ora sono solo. Un giorno, non ricordo quale, più o meno la scorsa primavera, si è accasciata e, dopo qualche ora, ha smesso di respirare. Erano le 4 del mattino, questo lo so. Di cosa è morta? Ad Haiti si muore così, di tutto e di niente». William, 15 anni si è avvicinato alla gang attraverso un amico. «Mi ha fatto vedere una fascetta di dollari e mi ha detto: “Se lavori per loro potrai averne tanti di più”. Il più delle volte è facile. Compro alcol e cibo per i miliziani e le famiglie e quando avanza da mangiare me lo danno. Spesso mi regalano qualche soldo e una sigaretta. Devi capire una cosa: se ti ordinano di fare altro, lo fai, senza esitazioni. Se no diventano cattivi. Poi, alla fine, la banda è tutto quello che ho. Certo, di morti ne ho visti tanti in questi anni. E ne ho seppelliti». William ripete più volte di non avere una pistola. «Ma quando c’è da sparare, si spara».
Bradley, 13 anni, resta in silenzio. Scuote nervosamente il capo alla domanda se faccia parte della gang. Mark, 14 anni, ha inventato un metodo tutto suo per sottrarsi alla pressione delle truppe di Djouma. «Mi alzo alle 5 e esco da Simon Pelé». Trascorre le giornate sul boulevard dell’aeroporto, a lavare i vetri delle auto di passaggio, sempre meno dato l’intensificarsi degli scontri. «Torno tardi così non li vedo e non mi chiedono niente. Altrimenti è duro dire di no». «Lavorare con i minori “in carico” o “associati” è fondamentale perché per loro è ancora possibile allontanarsi dalla banda. Per gli “affiliati”, invece, è necessaria una difficile negoziazione con i boss – aggiunge Fiammetta Cappellini -. Ora ancora di più perché è in atto un’escalation». Insieme alla violenza, aumenta il reclutamento dei “baby-scartati”. Daniel, Bradley e Mark non hanno mai messo piede in un’aula.
Nessuno di loro sa leggere né scrivere, come circa la metà dei bambini di Haiti, Paese in cui un sistema di istruzione pubblica di fatto non esiste. William sì. «Un po’ – precisa –. Ho fatto fino alla terza poi ho lasciato perché non riuscivo ad imparare. Tornarci? Come faccio?». Ingabbiati nella tragedia quotidiana, i soldati adolescenti delle gang fanno fatica a sognare. «A me va bene qualunque lavoro – dice Bradley - purché sia vero, non quello che faccio ora». «Qui non ce n’è – lo incalza William –. Per questo voglio partire negli Stati Uniti». «Forse farei il dottore. O, magari, il meccanico», osa Mark. «Io? Vorrei solo giocare – si rilassa, finalmente, Daniel –. Tu ce l’hai un pallone?».
Un gesto per i Figli di Haiti: aiuta ad andare a scuola i bimbi della Maison des Anges, l’orfanotrofio sfollato
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