Dopo il sisma. Haiti, i terremotati alla fame assaltano i camion degli aiuti
La folla disperata assalta i convogli con i soccorsi
«Non ripeteremo gli errori del 2010». Lo ha detto più volte questa settimana il premier Ariel Henry. Undici anni fa – quando il terremoto devastò Port-au-Prince, uccidendo 230mila persone in una manciata di minuti –, il governo non fu in grado di coordinare la distribuzione degli aiuti e la ricostruzione. Nell’isola fu il caos. E, nello scaricabarile generale di responsabilità, il Paese è rimasto in buona parte in macerie. Stavolta, aveva promesso il neo-leader all’indomani del sisma di 7.2 gradi Richter di sabato scorso, le cose sarebbero andate diversamente. Otto giorni dopo la scossa, però, la realtà haitiana lo smentisce. Di nuovo, la confusione è generale. Nell’ovest della nazione – dove si trovano i quattro dipartimenti colpiti: Sud, Les Cayes, Nippes e Grand Anse –, i soccorsi arrivano a singhiozzo, principalmente grazie agli sforzi di Onu, governi stranieri e organizzazioni internazionali, laiche e religiose.
Ma i convogli riescono a raggiungere solo i centri principali. Nei villaggi rurali e sulle montagne, ancora niente. E la pazienza dei colpiti – circa 600mila persone – sta finendo. Venerdì e oggi numerosi camion con viveri, medicine, tende, sono stati assaltati da folle di donne e uomini disperati. La gente li ha bloccati mentre percorrevano l’ultimo tratto di strada verso le zone terremotate e ha razziato ciò che poteva: cibo in scatola, tubetti di antibiotici, teli di plastica. «Fortunatamente i nostri autisti sono salvi», ha raccontato Soraya Louis, portavoce di Food for the poor, Ong i cui mezzi sono stati attaccati ieri. Anche ai centri di distribuzione di Les Cayes e dintorni la tensione è palpabile. Le file, fuori, sono interminabili.
Macerie in un villaggio vicino a Les Cayes - Reuters
«Niente, non c’è mai niente. Ci hanno lasciati soli», grida Lucien. «La distribuzione va avanti con troppa lentezza. I superstiti sono allo stremo», conferma Valentina Cardia, volontaria della Comunità Giovanni XXIII. «Ci sono ancora persone sotto le macerie. Facciamo il possibile ma abbiamo necessità di sostegno», racconta Víctor, uno dei soccorritori arrivati con la Guardia costiera Usa. In queste condizioni, il bilancio delle perdite – 2.200 morti, 12mila feriti, 100mila case – risulta, dunque, tragicamente approssimativo.
Macerie a Jérémie - Reuters
Proprio come nel 2010, a impantanare le operazioni, è la fragilità dello Stato haitiano, quasi privo di mezzi. Per sorvolare le aree sinistrate, il premier ha dovuto farsi prestare un elicottero dalla Repubblica Dominicana. Il centro di coordinamento dell’emergenza, creato dal governo, esiste di nome: nessuno capisce, però, come funzioni. Henry ha di nuovo chiesto alle Ong e alle squadre internazionali di canalizzare gli aiuti attraverso la struttura. Queste, però, dati rimbalzi e poca chiarezza, il più delle volte, fanno da se. Altro segno della debolezza istituzionale è il controllo delle gang delle principali arterie stradali, inclusa quella che collega la capitale con l’ovest. Al nodo bande – con cui è stata negoziata una tregua – si aggiungono ora gli attacchi spontanei dei terremotati. Per aggirarli, le autorità hanno ristretto la circolazione via terra. Dirottati via mare o a bordo dei pochi aerei, però, i soccorsi tardano ancora di più a raggiungere la meta. E la rabbia degli eterni dimenticati dal mondo cresce.