Il reportage. Haiti, alla guerra i soldati ragazzini: «La gang è tutto»
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È la gerarchia a determinare ogni cosa nella “Repubblica delle gang”. Non solo il tipo di mansione ma dove la si svolge, come, per quanto tempo. Tra i capi e la gente dei territori in ostaggio c’è un’infinità di gradi di potere e di diritti in cui si collocano individui e gruppi. I ragazzi scalcinati del primo check-point tra Fontamará e Gressier – propaggine all’estremo ovest di Port-au-Prince – si trovano molto vicini alla base della piramide. La guardia è affidata a un giovane con una gamba sola che deve far leva sull’A-15 per sollevarsi dalla sedia di plastica. «Un ricordo dei poliziotti», dice, mentre rivolge uno sguardo fugace al figlio neonato, adagiato sotto lo stesso arbusto. La madre è morta e deve portarlo con sé “al lavoro”. La strada che vigila è deserta dall’11 maggio scorso, quando la zona è stata annessa alla nazione caotica che le bande hanno creato sulle macerie delle istituzioni nazionali. A farlo la gang di Grand Ravine, guidata da Renel Destina alias “Ti Lapli”, sanzionato dall’Ue per i crimini commessi nel feudo di Martissant. Il suo luogotenente – Kili Bway – ha affidato l’espansione a occidente alla squadra d’assalto personale: i “103 Zonbi”. Creato nel 2020, il gruppo include qualche centinaio di ragazzini nati e cresciuti nella più violenta baraccopoli della capitale haitiana. Martissant, appunto. Molto armati e arrabbiati hanno sferrato un’offensiva costata 233 vittime e si sono insediati a Gressier, il primo municipio a entrare nella Repubblica delle gang dalla costituzione dell’attuale governo, presieduto da Gary Conille. Un amministratore rigoroso – concordano estimatori e detrattori –, dotato di molte buone intenzioni e mezzi inesistenti per realizzarle.
Gressier è la metafora del terremoto politico permanente che, in una manciata di decenni, ha demolito lo Stato fino a polverizzarlo negli ultimi cinque anni. E dello sforzo sovrumano di ricostruzione che Conille deve affrontare, con poco sostegno economico e pratico del mondo, concentrato su altre emergenze. Il litorale, su cui si ritrovava il jet-set di Hollywood negli anni ’50 e ’60, è popolato di scheletri di hotel un tempo di lusso. Con le gang, la rovina per inerzia è stata sostituita dall’ansia di distruzione. Le baracche addossate ai relitti di alberghi, ristoranti, stabilimenti sono state razziate e bruciate. La scuola è un rudere annerito. Poco prima c’è “l’ultimo anello di sicurezza” presidiato da un “ufficiale” che esibisce il proprio status privilegiato con una sdraio colorata, un ombrellone per ripararsi dal sole e una sedicenne molto truccata accanto. Al suo cenno di assenso, la moto si arrampica sulla collina dove si trova la “base” degli Zonbi. Otto ragazzi in ciabatte, boxer – molto griffati – e pistola fanno la posta dal lato opposto al cancello. Sul viso una maschera con lo scheletro, simbolo della banda. Anche Sans Frontiers la indossa sopra i rasta. «Sei qui per testimoniare che non siamo come ci dipingono», dice in tono marziale il capo 24enne, «braccio destro di Kili Bway» – precisa con orgoglio – nonché «comandante della zona: ho piena autorità». Per dimostrarlo, lo scorso 30 giugno, ha celebrato il compleanno assaltando il commissariato che un pugno di poliziotti con poche munizioni cercava di mantenere in funzione. In 25 sono stati massacrati e dati alle fiamme, un’altra decina è stata sequestrata, compreso il parroco, padre Emmanuel Saintéliat, poi rilasciato. «Gli agenti erano qui per attaccarci. Li abbiamo preceduti. Ma non siamo belve».
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Appena termina la frase, due “guardie” portano fuori dalla base un coetaneo malconcio. Con il terrore impresso negli occhi vitrei e il volto smunto, Anderson – questo è il suo nome - fatica a camminare e si tiene la testa ferita. «È una spia. La polizia gli ha dato 25mila gourdes – l’equivalente di 190 dollari – per controllarci. I miei ragazzi l’hanno scoperto due giorni fa. Avrei dovuto ucciderlo ma non l’ho fatto. Gli ha fatto dare solo una bella lezione. Ora guarda…»
Un “soldato” gli porge un mazzetto di banconote. Sans Frontiers le conta platealmente: sono 100mila gourdes, quasi 800 dollari, una cifra consistente nel Paese più povero dell’Occidente. Le mette in mano al prigioniero tremante e gli intima: «Per pagarti le cure. Puoi andare». Anderson appare frastornato. Non riesce a parlare. «Sto male, non voglio morire», ripete. Senza troppi riguardi, le guardie lo caricano sul motorino e partono, stretti tutti e tre sullo stesso sellino. Finita la dimostrazione pubblica di magnanimità, Sans Frontiers e compagnia iniziano a rilassarsi. Imitando il capo, uno dopo l’altro, i banditi-ragazzini si tolgono le maschere di gomma, mostrando i volti adolescenti. «Perché sono entrato in una gang? Ero povero e solo. Ora non più». Secondo l’Onu, tra il 30 e il 50 per cento delle truppe delle gang ha meno di 18 anni.
Mentre scherzano rumorosamente e si passano una bottiglia di liquore scadente, preparano un assalto a Leogáne, municipio limitrofo. «Nessuno può fermarci. Siamo “protetti”», si vanta Sans Frontiers mentre indica la catenina con due amuleti vudù, l’antica religiose animista degli schiavi africani che le gang strumentalizzano a proprio vantaggio. Anche Barbará, una delle due ragazze del gruppo, ne indossa uno. «Non sono una fidanzata. Combatto come chiunque l’altro», precisa. «Perché lo faccio? La banda è tutto. Mi ha accolta, mi rispetta. Non come la mia famiglia dove non sai cosa mi facevano…». Ile ha avuto da poco la sua prima arma. Dice di avere 19 anni ma ne dimostra non più di 15. Al collo ha arrotolata una sciarpa con la bandiera statunitense. «Ma agli Usa preferisco l’Italia. Se non mi ammazzano, però, prima o poi, ci andrò. Ho visto delle immagini su YouTube. Non sapevo ci fosse un posto così antico. A scuola non andavo mai, eravamo così tanti in classe che la maestra non se ne accorgeva. Mio padre non l’ho conosciuto, mia madre è partita per Guadalupe. Ho dovuto arrangiarmi». Se nei discorsi “ufficiali” si definiscono rivoluzionari in lotta con l’élite e i governi corrotti, una volta rotto il ghiaccio, i soldati raccontano mille varianti della stessa “storia sbagliata” di miseria e rabbia. Drammaticamente simile a quella delle loro vittime.
È trascorso più di un anno da quando Renis, 18 anni, ha abbandonato la casa e il chiosco in cui lavorava a Carrefour-Feilles per sfuggire all’avanzata verso ovest degli Zonbi. «Facevano un’incursione alla settimana. Ogni volta sceglievano una strada da razziare: picchiavano gli abitanti, rubavano, rapivano. Vivevamo nel terrore».
Insieme i fratelli di 10 e 4 anni e il padre, così, è scappato, diventando uno dei 578mila profughi interni di Port-au-Prince. Quattordicimila di questi sono scappati da Gressier e dalla vicina Carrefour, fra le comunità con esodo maggiore. «In realtà, siamo sfollati tre volte in dodici mesi. Prima siamo andati a Gressier ma gli Zonbi ci hanno raggiunto. Ci siamo, dunque, spinti fino alla capitale e ci siamo accampati vicino al Palazzo presidenziale. Le bande, però, sono arrivate anche là». Stipata con altre 1.114 persone, la famiglia ora dorme nel liceo Argentine Belleguard, nel quartiere Lalue di Port-au-Prince, tra il centro, occupato dalle gang, e le colline “libere” di Pétionville. Uno dei 111 “campi” disseminati per la città. Il mese prossimo, probabilmente, dovranno sloggiare ancora per l’apertura della scuola ma nessuno ha dato loro un’alternativa. «Più della metà di noi sono donne e bambini – racconta Jean Philippe Witchy, il portavoce del gruppo di sfollati –. I bagni sono otto, non abbiamo corrente né acqua potabile, tranne quella che ci porta Medici senza frontiere (Msf). Cibo non ne abbiamo. Mettiamo insieme qualunque cosa: il poco che ci donano, quello che si trova nei rifiuti, quello che riusciamo a vendere. Questa mattina abbiamo portato un anziano in ospedale. Stava male, non so se per la fame o la tubercolosi…» «La cosa più terribile è la notte. Non ci sono letti né materassi e il pavimento è pieno di scarafaggi e zanzare – conclude Noel, 20 anni –. A volta mi chiedo se abbia fatto bene a fuggire. Forse era meglio lasciarsi uccidere dalle bande. Poi, però, nelle lunghe ore in cui resto sveglia, guardo mia figlia di due anni e mi ripeto: “Lei è viva. Almeno per oggi».