Haiti. La pace a Cité Soleil può cominciare dal calcio a un pallone
La speranza oltre la fuga: dopo la tregua le gang ora si sfidato a pallone a di Citè-Soleil
«Per fortuna è accaduto ora. Almeno può riposare in un cimitero». È “il patto” l’unità di misura del tempo a Cité Soleil. La morte di Marcilá, in seguito a un attacco di cuore, ricade nella fase cominciata il 25 luglio quando le due gang più potenti di Haiti – G-9 e G-Pep – hanno trovato un accordo sull’assetto della baraccopoli-simbolo di Port-au-Prince. Nel resto della capitale e del Paese, le bande avevano fatto pace già da febbraio, quando Jimmy Chérizier alias “Barbecue”, capo di G-9, ha coniato la grande alleanza Viv Ansanm (Vivere insieme) che ha interrotto anni di massacri e vendette reciproche per sferrare una nuova guerra contro «il sistema ingiusto e corrotto». Il suo luogotenente a Cité Soleil, Mathias Saintil, detto solo “Mathias” e il boss di G-Pep, Gabriel Jean Pierre alias “Ti Gabriel” – impegnati dal 2020 in una battaglia furibonda per la supremazia su Cité Soleil – avevano, però, rifiutato di deporre le armi. Si erano, di fatto, astenuti dagli scontri. Le frontiere tra i rispettivi domini, tuttavia, erano rimaste sigillate e invalicabili. Vedette, cecchini, check-point e, perfino, un muro di cemento blindavano la Route Nationale 2, garantendo l’assoluta separazione fra il quartiere di Boston, roccaforte di Mathias, e Brooklyn, bastione di Ti Gabriel. Il camposanto della baraccopoli si trova a Druillard, dietro Boston. Nell’impossibilità di accedervi, per quattro anni, gli abitanti di Brooklyn hanno dovuto sotterrare familiari e amici nella discarica adiacente alla cappella di Santa Maria Stella del Mare, guidata dal missionario francese, padre David Fontaine. Terra e rifiuti, su cui si aggirano capre e maiali, coprono i caduti nella “battaglia di Cité Soleil”. Inutile e cruenta come tutte le altre che hanno insanguinato Haiti negli ultimi anni. E che, verniciate di smalto politico, continuano a dilaniarla.
Marcilá, almeno, ha una tomba a Druillard. «Per un po’, speriamo», racconta la nuora, Michelle: lei e il marito hanno sottratto qualche spicciolo al cibo per darlo a Nadé, il becchino, affinché impedisse il “trasferimento”. Chiamano così le incursioni notturne per togliere la salma e far posto al defunto successivo. Con una media di 17 morti ammazzati al giorno nei primi tre mesi dell’anno, i cimiteri sono ben oltre la capienza massima. «Così tanti vengono, svuotano il loculo e ci mettono il loro parente. Non si potrebbe ma di questi tempi chi ci fa caso…», spiega Nadé mentre indica i pezzi di casse da morto accumulati in un angolo. Con il patto, la mattanza è calata nello slum. Anche se non troppo. I combattimenti proseguono contro ogni brandello di presenza dello Stato. Non si svolgono, però, nella baraccopoli dove non ce n’è più da tempo, come dimostra il rudere del commissariato sulla Route Nationale 2, accanto alle macerie del “vecchio” muro di separazione tra Broklyn e Boston.
Incredulo e, al contempo, euforico, il popolo di Cité Soleil – circa mezzo milione di persone – si gode la tregua imprevista mentre nel resto di Haiti infuria la guerra. Il fine settimana si improvvisano feste al ritmo di “konpa”, la versione haitiana del merengue, nei vicoli resi ancora più stretti dal ritorno delle autobotti – principale forma di approvvigionamento idrico – che, a lungo, si erano tenute alla larga dalla zona. Qua e là sono rispuntati i mercati intorno a cui ruota la magrissima economia. Le gang hanno perfino potuto celebrare il tradizionale “campionato”. Come gli imprenditori più facoltosi, anche i boss esibiscono il loro status investendo in squadre di calcio i proventi di sequestri, racket e traffici. Il più fanatico – si dice – è Ti Gabriel, l’ideatore della competizione, promossa via social, per la quale, di solito, si dovevano fermare gli scontri per qualche settimana. Misura non necessaria quest’anno. Anzi, Mathias e Ti Gabriel hanno assistito in contemporanea alle partite per suggellare il patto, a cui ha fatto da garante Barbecue in persona.
«La pace non è arrivata in tempo per salvare mio marito», racconta, dopo aver preso fiato, Marie France, 44 anni. Il suo Jean è stato massacrato il 3 luglio. «L’hanno catturato mentre usciva dal lavoro: faceva il facchino all’aeroporto. Ora non mi è rimasto più nulla». L’anziana madre di Marie France è morta ad aprile, nell’incendio della baracca che condividevano. «Non so perché l’abbiano fatto, dicevano che dovevano dare l’esempio». Le gang hanno dato alle fiamme una fila di palafitte sbilenche di Soleil 17, la zona più miserabile dello slum più povero di Port-au-Prince. Gli affitti di quattro pareti di lamiera e compensato su una palude di fango costano l’equivalente di 22 dollari l’anno, fino a dieci volte in meno rispetto al resto della baraccopoli. Marie France non ha più nemmeno quelle. Almeno è riuscita a fuggire con il bimbo di due anni con cui dorme per strada. «Ho provato a portare via mia madre ma non camminava più ed era troppo pesante», aggiunge mostrando le braccia ossute. Il vicino ha preso l’altra figlia per portarla in salvo ma non sa dove: ha perso le tracce di entrambi. Accade spesso nelle fughe di massa dalla furia delle gang: nessuno conta i bimbi perduti dei 300mila costretti a sfollare da marzo.
«Questa guerra è crudele per tutti. Ma per i piccoli lo è infinitamente di più», racconta suor Paesie. Pochi, però, a Cité Soleil la chiamano così, nessuno con il nome di nascita, Claire Joelle Philippe. Per la gente, che la ferma di continuo, la religiosa francese, ad Haiti da 25 anni, è Maman Soleil fin da quando, nel 2018, dopo aver fondato la Famiglia Kizito, ha aperto la prima scuola nel posto dove non c’era mai stata. Soleil 17, appunto. «Volevo che gli ultimi fra gli ultimi potessero avere accesso all’istruzione, unica speranza di riscatto», sottolinea. Così è nato l’istituto elementare San Michele dove studiano gratuitamente – fatto non comune ad Haiti – 450 bambini. La scelta ha impressionato perfino Mathias e Ti Gabriel che sono andati a congratularsi di persona. Questo, però, non ha impedito che la struttura, situata al confine tra i domini di G-9 e G-Pep, diventasse campo di battaglia. Sul precario muro di cinta, l’implorazione «Saint Michel proteggici dai combattimenti», si legge a fatica a causa dei fori dei proiettili.
«L’avevamo appena aperta quando è cominciato il conflitto. È stato tremendo. Sparavano a qualunque ora. A un certo punto abbiamo dovuto tirare su un muretto in modo da riparare le porte delle aule per evitare che i piccoli fossero colpiti quando entravano e uscivano. Purtroppo tanti sono stati comunque feriti – dice Maman Soleil –. Nel settembre 2022 abbiamo sospeso le lezioni per un anno perché era diventato troppo pericoloso. L’autunno scorso, invece, abbiamo riaperto. Ora speriamo che vada meglio».
«Haiti vive il suo snodo più difficile e più cruciale della lunga transizione avviata dalla fine della dittatura dei Duvalier nel 1986», spiega in perfetto italiano Ricardo Augustin, giurista di formazione, vice-decano della facoltà di Scienze politiche dell’Università Notre Dame di Port-au-Prince. In qualità di esperto, ha partecipato al “gruppo di riflessione nazionale” convocato un anno fa dal vescovo Pierre-André Dumas. Formato dai vari settori sociali, l’organismo ha collaborato con la Comunità degli Stati caraibici per la gestione della transizione dopo le dimissioni dell’ex premier Ariel Henry nel corso della rivolta delle gang lo scorso marzo.
«In mancanza di autorità elette dal 2020, abbiamo pensato che fosse necessaria una presidenza collegiale, espressione delle principali forze politiche rivali: il Consiglio di transizione di 9 esponenti, appunto – sottolinea l’accademico –. Ad affiancarlo, il premier, Gary Conille, con una lunga esperienza nella cooperazione internazionale. Insieme, nel giro di un anno e mezzo, devono preparare il voto, realizzare le riforme necessarie, far ripartire l’economia, costituire una commissione verità e giustizia sul conflitto e ripristinare le condizioni minime di sicurezza. Quest’ultimo punto è quello su cui stanno facendo più fatica. Ma qualche timido passo avanti c’è. È fondamentale che il mondo non ci lasci soli». «Mi accontento – conclude suor Paesie – già solo di vedere qualcuno sorridere di nuovo a Cité Soleil. Non pensavo accadesse più.Ma gli haitiani sono maestri di resistenza».
3.Continua