Guerra in Ucrain. «Putin era pronto a concessioni». Perché fallì il negoziato nel 2022
Vladimir Putin
I negoziati di pace tra Russia e Ucraina avviati dal 28 febbraio 2022 (a 4 giorni dall’invasione delle truppe di Mosca) erano molto più vicini a un accordo di quanto potesse allora apparire, e forse non c’è stato un unico elemento che li ha fatti poi fallire. Di certo, non fu un intervento dell’allora premier britannico Boris Johnson, come spesso sostenuto dal Cremlino, anche se l’Occidente rimase tiepido dinanzi alla trattativa. Quello che si può imparare da quella vicenda, ora rivelata in dettagli inediti da una ricostruzione degli storici e analisti politici Samuel Charap e Sergey Radchenko su Foreign Affairs, è che anche Putin era pronto, almeno fino alla vigilia di un potenziale incontro con Zelensky, a "concessioni" importanti (non dimenticando che era ed è l'aggressore).
“I colloqui – scrivono Charap e Radchenko – partirono il 28 febbraio in una delle spaziose residenze di campagna di Lukashenko vicino al villaggio di Liaskavichy, a circa 30 miglia dal confine tra Ucraina e Bielorussia. Al primo incontro, i russi presentarono una serie di dure condizioni, chiedendo di fatto la capitolazione dell'Ucraina. Ma mentre la posizione di Mosca sul campo di battaglia continuava a deteriorarsi, le sue posizioni al tavolo dei negoziati diventavano meno esigenti. Così, il 3 e il 7 marzo, le parti tennero un secondo e un terzo round di colloqui, questa volta a Kamyanyuki, in Bielorussia, appena oltre il confine con la Polonia. La delegazione ucraina presentò le proprie richieste: un cessate il fuoco immediato e la creazione di corridoi umanitari che permettessero ai civili di lasciare in sicurezza la zona di guerra. Fu durante il terzo round di colloqui che russi e ucraini sembra abbiano esaminato alcune bozze di accordo. Secondo i russi, si trattava di bozze che la delegazione aveva portato da Mosca e che probabilmente riflettevano l'insistenza sullo status di neutralità dell'Ucraina”.
Vi fu poi un’interruzione di tre settimane degli incontri di persona, con scambi via Zoom. “Non è del tutto chiaro – prosegue la ricostruzione di Foreign Affairs - quando Kiev abbia sollevato per la prima volta la questione delle garanzie di sicurezza che avrebbero obbligato altri Stati a venire in difesa dell'Ucraina se la Russia avesse attaccato di nuovo, se nelle conversazioni con i russi o con i Paesi occidentali. Ma il 10 marzo, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, allora ad Antalya, in Turchia, per un incontro con il suo omologo russo, Sergey Lavrov, parlò di una ‘soluzione sistematica e sostenibile’ per l'Ucraina, aggiungendo che gli ucraini erano 'pronti a discutere' le garanzie che speravano di ricevere dagli Stati membri della Nato e dalla Russia”.
Nell’incontro del 29 marzo 2022 a Istanbul si fu vicini a una vera svolta. Era infatti pronta una bozza di comunicato che all’epoca fu soltanto riassunta verbalmente dalle parti alla stampa, ma che Charap e Radchenko hanno ottenuto in versione integrale. Era un testo redatto in gran parte dagli ucraini e provvisoriamente accettato dalla delegazione russa come base per un trattato. In esso, l’Ucraina sarebbe diventata uno Stato permanentemente neutrale e senza armi nucleari, avrebbe rinunciato all’adesione alla Nato e ad altre alleanze militari e a permettere la presenza di basi o truppe straniere sul proprio territorio. Possibili garanti dell’intesa, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (inclusa la Russia) insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia.
Il comunicato stabiliva che, se l'Ucraina fosse stata attaccata e avesse richiesto assistenza, tutti gli Stati garanti sarebbero stati obbligati a fornire assistenza a Kiev per ripristinare la sua sicurezza. Inoltre, si chiedeva alle due parti di cercare di risolvere pacificamente la disputa sulla Crimea nei successivi 15 anni. Malgrado la neutralità, l’Ucraina avrebbe potuto avvicinarsi alla Ue e non c’erano ostacoli espliciti all’ingresso.
Si tratta, notano gli analisti, di "concessioni" straordinarie da parte di Putin, che in precedenza aveva esercitato forti pressioni sul presidente Viktor Yanukovych affinché si recedesse da un semplice accordo di associazione con l'Europa e, soprattutto, non aveva mai accettato di rimettere in discussione lo status della Crimea occupata.
Ma, se anche la delegazione russe si mostrava ottimista il 29 marzo, i fatti delle settimane seguenti rimisero tutto in gioco. La ritirata di Mosca dava slancio alla resistenza ucraina e speranze di vittoria a Zelensly. Le atrocità commesse dagli occupanti a Bucha e Yrpin rendevano più difficile fare accordi con chi venne paragonato ai nazisti e all’Isis per i crimini di guerra commessi. Gli stessi occidentali - dal premier Johnson, primo a visitare Kiev, al segretario di Stato Usa Blinken e al collega segretario alla Difesa Austin, che lo seguirono a breve - diedero rassicurazioni al governo di Kiev sul sostegno militare e sulle possibilità di vittoria. Il vero nodo sarebbe però stato, da parte americana e anche europea, l’obbligo di intervenire in un confronto diretto con la Russia secondo clausole onerose che Washington e altri capitali non erano così desiderose di siglare.
Le trattative continuarono tra le parti per la messa a punto del documento. Mentre di fatto non si trattava sul cessate il fuoco e sull’assetto territoriale finale – una questione quest’ultima che sarebbe stata lasciata a un difficile faccia a faccia tra i due presidenti -, si rimetteva mano alle modalità dell’intervento dei garanti e al ruolo della Russia stessa in quel quadro di tutele di sicurezza. Inoltre, Mosca premeva per l’abolizione di alcune leggi ucraine nella linea della pretesa “denazistificazione” del Paese, una misura ritenuta irricevibile da Kiev. Un altro elemento controverso fu, nella ricostruzione ora offerta, la dimensione dell’esercito ucraino che, secondo il Cremlino, doveva ridursi a 85mila effettivi con solo 342 carrarmati e missili con una gittata massina di 40 chilometri, ovvero una forza armata molto debole.
L’obbligo di fatto di entrare in guerra con la Russia nel caso di un nuovo attacco ridusse l’appoggio degli Stati Uniti al negoziato, nelle stesse settimane in cui venivano aumentate le forniture di armi e la pressione su Mosca, con sanzioni economiche. Di fatto, l’impegnarsi diplomaticamente con la Russia non era la priorità dell’Occidente in quel frangente, secondo Charap e Radchenko. Tuttavia, ciò non significa che Kiev abbia eseguito ordini e che non fosse libera di procedere. Infatti, Zelensky e gran parte della sua opinione pubblica erano convinti in misura crescente di poter resistere all’invasore e forse anche di vincere la guerra.
Da aprile 2022 l’Ucraina irrigidì dunque la sua posizione nella trattativa. Mise la precondizione del ritiro russo dal Donbass, inaccettabile per Putin. E così, dopo il 15 aprile, i negoziati di fatto naufragarono e gli incontri finirono. Difficile dire che cosa Mosca avrebbe deciso se si fosse andati avanti. Il Cremlino avrebbe accettato la dichiarazione di Istanbul senza consistenti guadagni territoriali? E Zelensky avrebbe acconsentito? Certo pesò anche, dicono Charap e Radchenko, il fatto che ci si concentrasse più su aspetti di lunga scadenza che non sulla tregua da proclamare a breve termine e i confini sui quali portare le truppe. Resta che sia Putin sia Zelensky, per ragioni diverse, erano all’epoca disposti a fare concessioni.
O almeno così sembra da questa ricostruzione, che è stata subito contestata da altri analisti e commentatori, propensi a credere che la delegazione russa non avesse davvero il potere di rimettere in discussione l’assetto della Crimea, solo per fare un esempio. Inoltre, non è chiaro come si potesse porre nero su bianco l’impegno dei Paesi occidentali nel difendere l’Ucraina senza un loro coinvolgimento diretto. Sicuramente, altri storici, con più documenti e più distacco dagli eventi, potranno ricostruire meglio l’intera vicenda.