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Guatemala. Vince Giammattei e gioca la carta «migrazione»

Lucia Capuzzi martedì 13 agosto 2019

Il presidente eletto, Alejandro Giammattei, 63 anni, Ansa

Buona la quarta. Dopo averci provato nel 2007, 2011 e 2015, domenica, Alejandro Giammattei si è aggiudicato la presidenza guatemalteca con oltre 16 punti di stacco dalla rivale, Sandra Torres. Un risultato, in parte, annunciato dai sondaggi. Al primo turno, il 16 giugno, Torres, ex first lady tra il 2008 e il 2012, era stata la più votata. Al ballottaggio, invece, s’è fermata al 41,8 per cento contro il 58 per cento dello sfidante conservatore. L’autentico vincitore della consultazione è stato, però, l’astensione – a quota 42 per cento –: un segno eloquente della sfiducia dei cittadini nei confronti della classe politica, scredita da una raffica di scandali di corruzione. Nel 2015, le proteste di massa costrinsero alle dimissioni l’allora capo dello Stato, Otto Pérez Molina, e la vice, Roxana Baldetti, entrambi in cella per un giro di mazzette milionario. La “primavera dello scontento guatemalteca”, come è stata soprannominata, ha portato al trionfo dell’ex comico Jimmy Morales, presentatosi come “uomo nuovo” ed elemento di rottura rispetto all’establishment tradizionale. Quattro anni dopo, però, l’ex attore è il leader latinoamericano con minor popolarità, dopo il venezuelano Nicolás Maduro. I sospetti di tangenti sulla sua famiglia, l’insuccesso nella lotta alla povertà e alla violenza, e da ultimo, il controverso accordo migratorio firmato con gli Usa lo scorso 27 luglio, ne hanno minato il consenso.
Un’eredità “avvelenata” per Giammattei, politicamente vicino al predecessore. Il momento, oltretutto, è fondamentale. Nel piccolo Guatemala, Washington sta giocando una partita cruciale in vista della prossima corsa alla Casa Bianca. Insieme terra d’esodo e crocevia obbligato per i centroamericani in rotta verso l’El Dorado Usa, il Paese è strategico per il progetto trumpiano di chiusura della frontiera Sud, cavallo di battaglia delle presidenziali 2020. L’intesa, siglata in tutta fretta, senza fornire dettagli e nonostante l’opposizione della Corte costituzionale, attribuisce al Guatemala – pur senza dirlo esplicitamente – lo status di “nazione terza sicura”. E, per tale ragione, là gli Stati Uniti invieranno i richiedenti asilo salvadoregni e honduregni che ne abbiano attraversato il territorio. Cioè quasi tutti. Il patto rischia di avere un effetto dirompente per il Guatemala, il Paese più povero d’America dopo Haiti e Nicaragua. Nonché luogo d’emigrazione per centinaia di migliaia di persone: solo negli ultimi sei mesi, in 235mila – l’1,5 per cento della popolazione – sono stati fermati mentre cercavano di entrare irregolarmente negli Usa. In campagna elettorale, Giammettei aveva criticato l’accordo Morales-Trump, per altro senza troppa convinzione.
Dopo la vittoria, ha espresso la «speranza di poter apportare dei cambiamenti all’intesa» per «migliorarlo». Il presidente eletto, in ogni caso, entrerà in carica a gennaio. Nel frattempo, Trump non cederà facilmente: aveva già minacciato di imporre tariffe alle esportazioni e alle rimesse, strangolando un’economia già fragile. Altra questione che travalica i confini nazionali è quella della lotta a corruzione a impunità, condotta negli ultimi 12 anni in collaborazione l’Onu tramite un’apposita Commissione (Cicig). A gennaio, il leader uscente ha deciso di non rinnovarne il mandato, dopo che l’organismo aveva iniziato a indagare per finanziamento illecito alcuni suoi familiari. Il successore – che in campagna ha promesso pugno di ferro contro il crimine ed è arrivato a proporre il ritorno alla pena di morte – non è intenzionato a cambiare strada.