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La storia. Guatemala, la gente di San Rafael ferma la miniera che fa morire di sete

Lucia Capuzzi, Casillas (Guatemala) giovedì 2 gennaio 2020

Il presidio di Casillas, vicino alla miniera di El Escobal

«Sono qui perché è mio dovere esserci. Quando mi chiedono se ho paura, rispondo che tutti dobbiamo morire. Tanto vale farlo lottando». Mentre parla, Adriana rimescola i fagioli che cuociono nella grossa pentola di rame. Nessuna variazione di menù per Capodanno: legumi e tortillas (spianate di mais). «Ci abbiamo fatto anche la cena di San Silvestro», racconta la donna, visibilmente stanca dopo aver trascorso la notte a Casillas.
Il “presidio” è una specie di gazebo di legno, sotto il cui tetto di lamiera si notano un divano scassato, qualche sedia di plastica e un fornelletto da campo. «Non abbiamo molti mezzi. Siamo volontari. Anzi, come contadini, ci rimettiamo perché per venire qua dobbiamo saltare il lavoro nei campi. E trovare i soldi per la benzina o per il biglietto del bus. Ma lo facciamo con il cuore. Senza acqua non c’è agricoltura. È in gioco il nostro presente e il nostro futuro». A “minacciarli” – sostiene Adriana – è il progetto El Escobal, la seconda miniera d’argento più grande del mondo, di proprietà, prima, di Thoe Sources e, ora, del colosso canadese Pan American Silver. Situata a cavallo dei dipartimenti di Santa Rosa e Jalapa, l’impresa ha lavorato a pieno ritmo tra il 2013 e il 2017. Con un fortissimo impatto su ambiente e popolazione locale, come denunciato da studi indipendenti e dalla Chiesa locale. La pressione sociale ha portato, però, il 7 giugno di quell’anno, la corte di giustizia guatemalteca a fermare le attività. Una decisione confermata nel settembre 2018 dal massimo tribunale. A vigilare che sia rispettata, sono gli abitanti dei municipi limitrofi di Santa Rosa da Lima, Nueva Santa Rosa, Casillas, San Rafael Las Flores, San Carlos Azalate. Da 939 giorni e notti si alternano al presidio, posto all’imboccatura della strada che conduce a El Escobal.
«Ci siamo auto-organizzati in dieci turni da 24 ore. In media ci sono tra le dieci e le venti persone. E il presidio non è mai rimasto deserto», sottolinea Adriana, determinata ad andare avanti «fino a quando la miniera non sarà definitivamente chiusa». Lo stop ordinato dalla magistratura è temporaneo: fino allo svolgimento della consultazione preventiva dei locali, richiesto dalla consultazione per le zone ad alta intensità indigena. Come, appunto, la regione intorno a El Escobal dove risiedono gli indios Xinka. Nonostante l’impegno ad agire al più presto, finora il governo di Jimmy Morales ha preso tempo per evitare il riaccendersi del conflitto, che ha avuto momenti di forte tensione. Gli attivisti hanno denunciato minacce e la morte, in agguati o nella repressione di manifestazioni, di 12 leader sociali, e l’arresto di altri 19. La questione più spinosa, ora, è come realizzare la votazione. Ovvero se far partecipare solo i residenti di San Rafael – come vorrebbe l’impresa i cui investimenti hanno dato un impulso positivo all’economia cittadina – o la gente dell’intera zona, in gran parte contraria al progetto. «Per forza. La miniera rischia di lasciare a secco 300mila persone anche se secondo l’azienda il suo impatto si esaurirebbe in un raggio di sei chilometri», sostiene Moises Divas, coordinatore della Commissione diocesana per la protezione della natura (Codidena). Un organismo costituito nella diocesi di Santa Rosa nel 2019 che ha accompagnato la resistenza pacifica dei contadini a El Escobal.
«La gente sopravvive grazie ai cinque fiumi che bagnano la regione, già a rischio siccità per il cambiamento climatico. Da lì la miniera prelevava quasi cento litri al minuto. Mentre i suoi tunnel di estrazione – scavati a sei chilometri di profondità – hanno alterato la loro fonte di alimentazione: le falde sotterranee. Per non parlare dell’impiego sistematico di cianuro e arsenico nella lavorazione dell’argento». Dati negati dall’azienda che afferma di voler creare sviluppo nel secondo Paese più povero d’America. Con la sua chiusura – dice – andrebbero persi 80mila impieghi. «El Escobal dava lavoro a 1.004 persone, di cui 530 di Santa Rosa – conclude Divas –. La gente l’ha imparato sulla sua pelle: l’economia estrattiva non crea ricchezza né benessere»