Sentirà un po’ freddo. Del resto non possiamo fare altrimenti: il riscaldamento centralizzato rimane acceso solo due ore al giorno. Sta guardando il camino? No, le assicuro, non ci bruciamo le sedie, quella è una leggenda metropolitana che vi siete inventati voi giornalisti. È vero però che si va a comprare la legna da ardere fuori Atene. Costa ancora molto poco, un quinto del gasolio da riscaldamento, e ti dà l’illusione di essere tu stesso a decidere come e quando consumarla. Ma è inevitabile che i prezzi finiranno per salire anche lì». Amelia Kounellis (nessuna parentela con Jannis, l’artista del Pireo maestro dell’
arte povera, ma il cognome casca a proposito) sorride amara. Nelle sue parole traspare la certezza di non finire come quel farmacista che si fece saltare le cervella in Piazza Syntagma. «Non ancora, per lo meno...», aggiunge Nikos, il marito. Umorismo nero, per esorcizzare quella parola –
autoktonìa – che sembrerebbe indicare tutto tranne che il suicidio.Nikos e Amelia sono, o meglio erano, una coppia benestante. Casa di proprietà a Kolonaki (l’
arrondissement aristocratico di Atene che va da Syntagma al Licabetto, il Colle di Lupi lussureggiante di abeti e cipressi), docente di archeologia lei all’università, giornalista-scrittore lui, una casetta nelle Cicladi a picco sul mare e un figlio che studia in Europa. La loro storia è paradigmatica se pure non tragica come quella di migliaia di greci che affollano le mense pubbliche, che rovistano nei rifiuti, che dormono nelle automobili perché non hanno più la casa, che i debiti hanno prima azzoppato, poi ridotto alla
ftòkeia, la miseria più nera. Ma proprio quel rimanere a galla in una raggelante terra di mezzo fra il lustro perduto e il fantasma della povertà, che niente sembra avere a che fare con la schumpeteriana
distruzione creativa caldeggiata dai soloni di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale, fa della classe media abbiente un terribile stendardo del fallimento di una terapia economica basata sulle nude cifre e indifferente alle sorti degli esseri umani.«Per prima cosa – dice Amelia – mi hanno tolto la quattordicesima e la tredicesima. Poco male, questo accadeva due anni fa, me l’aspettavo. Quello che non mi aspettavo era il semi-licenziamento di mio marito».«Io invece me lo sentivo – dice Nikos –, anche perché il settimanale in cui lavoro andava malissimo, nessuno aveva i soldi per comperarlo. Così mi hanno offerto di continuare a meno di metà stipendio e stando a casa. E io ho accettato. Sono passato da duemilatrecento euro al mese a millecento, stipendio che non sempre arriva regolarmente. E non è finita qui. Voi italiani vi lamentate dell’Imu sulla prima casa: lo sapete che noi di tasse sulla casa ne avevamo tre e che ne hanno aggiunta di recente una quarta? E lo sapete che il pagamento della tassa sulla casa è agganciato alla fornitura di luce elettrica? Che cioè se smetti di pagare perché non ce la fai più alla seconda rata mancata ti staccano il contatore?» Kolonaki, un tempo fulgido di luce, di
griffe sfavillanti, di superattici abitati dalla crema imprenditoriale e professionale di Atene da molti mesi è diventato la caricatura di se stesso. Nemmeno i poverissimi si accucciano più davanti alle vetrine dei negozi perché quasi metà di quei negozi sono chiusi, imposte sbarrate, grandi tavole di legno al posto dei cristalli dove un tempo occhieggiavano le meraviglie del superfluo che la borghesia felice di Kolonaki si contendeva con la stessa vanesia leggerezza della ricca borghesia di Beirut, di Smirne, di Salonicco, eredità di quella
zenginlik gösteristen, l’ostentazione ottomana della ricchezza come pubblica convalida del proprio successo.«I poveri non sono più soltanto gli immigrati – spiega il direttore della Caritas Hellas Andreas Voutsinos – da mesi sono i greci a rivolgersi a noi per avere un pasto caldo, delle medicine, un tetto. Ma sono troppi, impossibile soccorrerli tutti». A volte ci pensa la solidarietà popolare. Si va al supermercato e ci aspetta che chi compra lasci qualcosa per chi non può più permetterselo. E sono tanti, visto che attualmente 8 famiglie su 10 hanno problemi economici, il 41% ha chiesto un prestito bancario, un terzo chiede di rinegoziare il mutuo casa, il 90% chiede una dilazione sulle rate, il 10 per cento ha smesso di pagarle.«Ci sono padroni di casa lungimiranti – dice ancora Amelia – che qui a Kolonaki hanno abbassato gli affitti: da duemila a mille euro per cento metri quadrati, visto che nessuno si poteva più permettere una rata così elevata. Ma i ricchi, quelli veri, sono già scappati tutti quanti. Case a Londra, figli all’estero. Qui qualche palazzo sprangato e sorvegliato per evitare possibili saccheggi. Non si sa se torneranno». Fa impressione e rabbia insieme pensare a questa diaspora di magnati ellenici, in fuga verso l’Europa benevola e accogliente come gli
émigrés russi a Parigi che scappavano dalla rivoluzione bolscevica. Rabbia e insieme smarrimento di fronte a un’Europa che sulle sue Carte dei Diritti reclama a gran voce di fondarsi «sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà» e di porre «la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia». Ma possiamo ancora chiamarlo Europa quest’angolo sventurato del continente, dove le cifre di bilancio svergognano la dignità dei cittadini, dove la povertà diffusa si ammanta di un tragico e quasi esaltante decoro, senza pietismi e senza pianti greci, così lontano per fierezza e orgoglio dalle gelide scrivanie di chi ha consentito (e persino messo in conto) questa ecatombe civile e sociale? O forse è l’
altra, quella dei Paesi virtuosi dalla (provvisoria) tripla A a non avere più il diritto morale di chiamarsi Europa?