Troppo grande per poterla misurare con precisione. Nella sostanza è questa la conclusione dei biologi marini rientrati dalla spedizione nelle acque della Great Pacific Garbage Patch, un’area dell’oceano Pacifico a nord delle Hawaii in cui – per il gioco delle correnti marine – si è accumulata un’impressionante quantità di spazzatura. Il progetto Kaisei («pianeta oceano» in giapponese) – concepito dallo Scripps Institution of Oceanography dell’Università di San Diego – è stato il primo tentativo di studiare scientificamente quella che oggi è certamente la più grande zona di accumulazione di rifiuti della nostra società. La gran parte degli scarti dell’attività umana che le correnti circolari del Pacific North Gyre (Vortice del Pacifico settentrionale) spingono a confluire in un’area che si stima doppia di quella dello Stato del Texas è costituita da involucri e recipienti plastici. Questi – in virtù della fotosensibilità della plastica – finiscono per disintegrarsi in pezzetti spesso grandi pochi millimetri. La minuscola dimensione dei detriti e il fatto che essi fluttuino in una fascia di profondità fino a dieci metri dalla superficie rende questo continente sintetico semisommerso praticamente invisibile – e non misurabile – anche dall’alto. Ma più ancora che l’estensione quello che spaventa sono la concentrazione e la densità dei detriti plastici ammassati in quel vasto spicchio d’oceano: i dati, che le prime evidenze raccolte dai biologi della spedizione appena conclusa sembrano confermare, ipotizzano che in quelle acque la plastica sia ormai in un rapporto di sei a uno rispetto allo zooplancton, il primo gradino della catena alimentare marina. Questo è l’aspetto che sta destando il massimo allarme, ancor più di quello già drammatico delle migliaia di uccelli marini morti per l’ingestione di pezzi di plastica (soprattutto tappi colorati), scambiati per piccoli pesci: «Abbiamo scoperto che alcune meduse hanno iniziato a cibarsi dei detriti plastici» racconta Andrea Neal, genetista molecolare imbarcato su una delle due navi ricerca del Kaisei. E tracce di plastica sono state trovate in cozze e cirripedi (piccoli crostacei). È noto che le plastiche possono assorbire metalli pesanti e inquinanti presenti nell’ambiente – fra cui il Ddt e i famigerati policlorobifenili (Pcb), oggi al bando ma tuttora non smaltiti dalla natura e disciolti nelle acque marine. Se la plastica entra nella dieta di meduse e molluschi, è ben possibile che le relative tossine possano «salire», di anello in anello della catena alimentare, fino a pesci quali tonni e salmoni, di cui l’uomo si nutre in abbondanza. La natura rimanda al mittente quanto le è stato fatto ingurgitare, verrebbe da dire, ma – ancorché esemplare come punizione – il «contrappasso» non è una soluzione. Il fatto è che secondo Charles Moore, il navigatore che nel 1997 scopri il «Gorgo di Plastica» e ne diede conto al mondo, soluzioni non ce ne sono: «I costi connessi alla pulizia del Vortice sono tali da mandare in bancarotta qualsiasi Paese volesse cimentarsi nell’impresa. E comunque – spiega Moore, fondatore di Algalita, (
www.algalita.org) un’organizzazione per la protezione degli oceani – se si utilizzassero le reti per raccogliere almeno i pezzi di plastica più grossi, il risultato sarebbe una strage di pesci e altri organismi marini». Se non si può raccogliere la plastica che nell’oceano c’è già finita, «bisognerebbe almeno smettere di farcene arrivare dell’altra» dice Moore. Ma questo sarebbe possibile soltanto con un cambiamento radicale nel comportamento quotidiano di ognuno di noi. Contrariamente a quanto si può credere, infatti, i veri responsabili dei rifiuti trovati negli oceani non sono quanti vanno per mare bensì quelli che vivono sulla terraferma: i quattro quinti della plastica che galleggia in mare o si deposita sul fondo oceanico provengono dalle città, tramite gli scarichi delle acque reflue. In attesa che il mondo impari a fare a meno di almeno parte dei 100 miliardi di tonnellate di plastica prodotta ogni anno, un primo rimedio, dice Doug Woodring, finanziatore del progetto Kaisei, potrebbe essere quello di concepire scarichi urbani che siano almeno in grado di trattenere i rifiuti di plastica che vi finiscono dentro. C’è il sospetto che quello scoperto da Moore dodici anni fa quasi per caso (tornando in California dalle Hawaii, Moore decise di accorciare passando per il Vortice, di solito evitato dalle imbarcazioni perché in perenne bonaccia: «Navigai per giorni circondato dalla plastica») non sia un caso unico. Sempre nel Pacifico, questa volta nell’emisfero sud, c’è un altro Vortice, il Pacific South Gyre, quattro volte più potente del gemello boreale. E lo Scripps Institute ha già in progetto di studiare anche quello: «Dobbiamo andare a vedere» dice Tony Haymet, il direttore dell’Istituto, «anche se, onestamente, siamo spaventati da quello che potremmo trovare».
La traversata nella spazzatura. Una barca tutta in plastica riciclata per poter navigare in quella che è stata chiamata la «zuppa di plastica» della Great Pacific Garbage Patch. È la trovata di David de Rothschild, rampollo ecologista della famosa famiglia di banchieri che vuole con quest’iniziativa e attraverso il suo nome riaccendere i riflettori mediatici sul dramma ambientale che si sta consumando in un vasto tratto dell’oceano Pacifico a metà strada fra le isole Hawaii e la costa occidentale del Nordamerica. L’imbarcazione con cui il 31enne David vuol prendere il largo, partendo da San Francisco e approdando a Sydney dopo aver attraversato la Garbage Patch, sarà costruita usando esclusivamente 12mila bottiglie di plastica recuperate da varie discariche. Il fatto è che per quanto il giovane Rothschild voglia con questo progetto sottolineare «che la plastica non è il nemico; basta saperla riciclare», fare una barca con bottiglie in polietilene e polipropilene e che per di più produca l’energia di cui ha bisogno senza generare emissioni è impresa che, nonostante vi stiano lavorando fior di designer e architetti navali, si sta rivelando più ardua del previsto. Il varo infatti era previsto per questa estate ed ora si spera che possa aversi entro fine anno. Benaugurante il nome scelto da Rothschild per il suo catamarano ecologico: «Plastiki» (
www.theplastiki.com) – chiaro omaggio al Kon-Tiki, l’imbarcazione in tronchi di balsa e fusti di mangrovia con cui nel 1947 Thor Heyerdahl attraversò un oceano Pacifico ancora libero dal «Gorgo di Plastica».