Il rapporto. La guerra globale agli ambientalisti: ucciso un attivista ogni due giorni
A Seul grande protesta contro gli effetti del cambiamento climatico
Adagiata sull’altipiano della Sierra Nevada del Cocuy, la cittadina di Tame appartiene “all’altra Colombia”: la sterminata nazione rurale, a incommensurabile distanza geografica ma soprattutto sociale dal resto del Paese, fatto di metropoli moderne e popolose e località-cartolina affollate di turisti internazionali. Là si è consumato l’ultimo omicidio di un attivista ambientale nel 2023. La mattina del 31 dicembre, prima dell’inizio dei festeggiamenti di Capodanno, è stato assassinato Luis Parra Toroca, 39 anni, governatore indigeno della comunità di La Esperanza. Due mesi prima, le Nazioni Unite avevano emesso un’allerta sulla minaccia di gruppi armati illegali decisi a conquistare la zona. Per le bande, i leader locali come Luis Parra Toroca erano un ostacolo da eliminare. Il rappresentante nativo è la vittima numero 79 nel macabro bilancio degli ambientalisti assassinati l'anno anno, in Colombia. La nazione più letale di sempre per chi combatte per i diritti della terra e, di conseguenza, di quanti la abitano. «Non solo conta il 40 per cento degli ecologisti assassinati nel 2023. Questo dato rappresenta il più alto mai registrato in un singolo Stato. Con 461 vittime da quando abbiamo cominciato a censirle, dodici anni fa, la Colombia detiene anche il primato storico», afferma Laura Furones, che ha guidato l’équipe di ricercatori autrice dell’ultimo rapporto di Global Witness, appena pubblicato. Una doccia fredda per la nazione che, dal 21 ottobre, ospiterà la Conferenza Onu sulla biodiversità (Cop 16). E che, dall’inizio della presidenza del progressista Gustavo Petro, cerca di accreditarsi come avanguardia dell’impegno ambientale nel Sud del pianeta mediante scelte di rottura, come l’annuncio dell’intenzione di congelare i nuovi progetti petroliferi.
Per quanto grave, lo scenario colombiano è in linea con quello globale. «Il 2023 è stato particolarmente cruento, con 197 uccisi nel mondo, in media uno ogni due giorni – sottolinea l’esperta spagnola –. Non si tratta, purtroppo, però, di un caso isolato. Da un anno all’altro le cifre degli omicidi fluttuano di qualche decina. Anche quando c’è un calo, questo non è significativo e il numero complessivo resta tragicamente alto», prosegue Laura Furones. Una conseguenza della gravità assunta dall’emergenza ambientale. Di fronte all'emergenza climatica, cresce la domanda sociale di politiche sostenibili che si scontra con interessi miliardari. Non sorprende, dunque, che la violenza si concentri nel Sud del mondo, serbatoio di materie prime per il mercato internazionale. Estrattivismo si dice in termini tecnici. L'ansia di accaparrarsi le risorse spinge a “sorvolare” sulla protezione della natura. «Due sono gli attori chiave per contrastare la violenza sugli attivisti ambientali. I governi e le istituzioni, innanzitutto, che hanno il compito di adottare politiche per prevenirla. Nonché di creare regole efficaci per disciplinare il comportamento delle imprese, nazionali o internazionali, impegnate nello sfruttamento delle materie prime. Queste ultime, da parte loro, devono rispettarle. Uno stimolo importante possono essere quelle normative internazionale che esigano trasparenza nella filiera produttiva in modo da garantire il rispetto dei diritti umani e della natura». Uno dei punti più spinosi è, poi, l’applicazione delle leggi su territori spesso remoti.
La Colombia ne è l’emblema. «Petro ha messo la questione ambientale al centro dell’agenda politica. Un passo importante e un segnale di forte discontinuità con il passato. Il Paese, però, deve fare i conti con le difficoltà ereditate da oltre mezzo secolo di guerra e un processo di pace ancora all’inizio».Lo scoglio principale è la presenza di potenti organizzazioni criminali – eredi della guerriglia o, soprattutto, dei vecchi paramilitari d’ultradestra – che hanno trasformato il traffico di risorse in uno dei business principali. Per la medesima ragione, dunque, al terzo posto della classifica di Global Witness troviamo Messico e Honduras, entrambe con diciotto attivisti uccisi. La mappa degli omicidi coincide, nelle due nazioni centramericane, con quella del radicamento dei narcos sul territorio. I cartelli della droga, ormai, abbinano al commercio di cocaina, quello di legname, minerali, perfino specie rare. E non si fanno scrupolo di eliminare sistematicamente quanti si oppongono non solo ammazzandoli ma anche facendoli scomparire. Il ricorso crescente alla “desaparición forzada” dei custodi del pianeta è una delle tendenze più preoccupanti evidenziate dall’Ong. Precede i due Paesi centroamericani nella classifica, il Brasile - 25 vittime - dove gli intenti del governo di Luiz Inácio Lula da Silva di tutelare la natura, in particolare la regione amazzonica, si scontra con un Congresso e delle amministrazioni locali controllate da politici vicini agli interessi dei latifondisti. «L’85 per cento degli omicidi del 2023 è avvenuto in America Latina, da sempre il Continente con il maggior numero di attivisti uccisi. Questo è dovuto senza dubbio al grado elevato di organizzazione della società civile che la espone al rischio di repressione. Dall’altra, però, per quanto riguarda l’Asia e, soprattutto, l’Africa c’è il problema di trovare le informazioni. Dato il forte controllo esercitato dai regimi, spesso, la gran parte dei delitti resta invisibile. Non vuol dire, però, che non accadano». Vi è, infine, un ulteriore ragione di allarme. La violenza perpetrata nel Sud del mondo sta facendo scuola. E viene replicata, in forma differente, nel Nord man mano che cresce la consapevolezza ambientale. In Usa, in Europa e in Gran Bretagna le aggressioni fisiche sono sostituite da un’offensiva legale volta a criminalizzare la legittima mobilitazione nonviolenta per la casa comune.