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Siria / L'analisi. Ci sono le armi, manca la parola dei grandi imam

Camille Eid mercoledì 24 settembre 2014
Togliere ai jihadisti ogni possibilità di presentare l’offensiva alleata in Iraq e Siria come l’«ultima crociata» contro l’islam e i musulmani. Era questo l’obiettivo del Pentagono, che – al netto di una strategia poco chiara per individuare una soluzione alla crisi siriana (prima) e irachenosiriana (adesso) – ce l’ha messa tutta per disinnescare (almeno) il tentativo del-l’Is – con il suo portavoce Abu Mohammad al-Adnani – di portare su questo piano i bombardamenti contro il Califfato. E gli Usa hanno trovato armi di guerra sunnite alleate, ma non – si vorrebbe poter scrivere 'non ancora' – parole di pace della stessa matrice da autorità religiose islamiche. Fatto sta che la partecipazione di cinque Paesi musulmani alle operazioni militari in territorio siriano toglie mordente alle farneticazioni dei jihadisti. Secondo quanto hanno reso noto fonti del Pentagono, all’operazione prendono parte Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti e Bahrain e Qatar. Tutti Paesi sunniti. E «pieni partecipanti». Anche se non sono stati forniti ulteriori dettagli su cosa faranno esattamente, sottolineando che spetta ai singoli governi dare indicazioni specifiche sul ruolo svolto.  Le conferme dei singoli Stati si sono susseguite per tutta la giornata di ieri. Amman è stata la prima a dichiarare che i suoi aerei hanno effettivamente preso parte ai bombardamenti aerei e che sono rientrati alle basi senza problemi. Alcuni analisti giordani hanno però espresso il timore che il loro Paese, con questa dichiarazione, si sia «cacciato in un vespaio». Un comunicato ufficiale del Bahrein ha invece “messo alle strette” le altre monarchie della regione affermando che jet del regno hanno effettuato raid contro i terroristi «a fianco delle forze aeree sorelle» del Consiglio di cooperazione del Golfo.  L’aver coinvolto cinque Paesi arabi nell’operazione in Siria, scrive il Washington Post, rappresenta un grande successo diplomatico per l’amministrazione Obama dopo lo sforzo compiuto nelle scorse settimane per costruire una coalizione internazionale contro l’Is. Dai Paesi arabi e musulmani (con la Turchia che si prepara a entrare in campo) ci si aspettano ora altri due “contributi”, fondamentali per il successo dell’offensiva. Il primo: garantire un sostegno alle forze locali, siriane e irachene, cui sarà affidato il più complicato lavoro sul suolo. La sorte di una guerra, diceva ancora il portavoce di Is nel suo minaccioso proclama, non viene mai decisa dai soli raid aerei.  È così, soprattutto in una guerra di questo tipo. Il secondo contributo, ancora mancante eppure decisamente essenziale, riguarda una più decisa iniziativa a livello dottrinale islamico in grado di togliere all’Is la 'legittimità religiosa' che pretende di avere. Le voci dei leader musulmani, dal Grande imam di al-Azhar al Gran mufti saudita, che hanno condannato le derive del Califfato, purtroppo non sono state chiarissime e, viste le premesse, rischiano di restare deboli e persino di affievolirsi ancor più. Servirebbe l’esatto contrario: l’incapacità di sostenere tale confronto da parte degli ulema musulmani minaccia, infatti, di lasciare la parola solo alle armi.