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LA NUOVA POLITICA. Gli Usa non firmano sulle mine anti-uomo

Elena Molinari giovedì 26 novembre 2009
Il “cambiamento” non è facile né veloce, soprattutto quando a dover cambiare rotta è una portaerei come gli Stati Uniti d’America. Se ne è accorto Barack Obama, eletto sulla base di una piattaforma anti-Bush che prometteva di raddrizzare tutte le decisioni “storte” del predecessore. Peccato che molte di quelle decisioni si siano rivelate frutto di politiche che non possono essere cancellate con un colpo di penna. Lo si è visto ieri stesso. Il dipartimento di Stato ha fatto sapere che il presidente Usa – lo stesso che aveva promesso un rispetto maggiore dei trattati internazionali – non firmerà la convenzione per la messa al bando delle mine antiuomo. Esattamente come il suo predecessore. Nello stesso giorno un secondo alto funzionario della Casa Bianca coinvolto nelle politiche per i detenuti, Philip Carter, si è dimesso. La sua uscita di scena coincide con l’imbarazzata ammissione da parte di Obama che Guantanamo non potrà essere chiusa entro la data promessa del 22 gennaio. Intanto Obama cercava di ottenere cambiamenti concreti in un’altra, tortuosa direzione, quella del clima. Nonostante non abbia ancora ottenuto nessun impegno concreto da parte del Congresso, il capo della Casa Bianca si è personalmente esposto promettendo tagli dei gas a effetto serra da parte degli Stati Uniti «intorno al 17 per cento sotto i livelli del 2005 entro il 2020». E ha detto che si recherà al summit sul clima di Copenaghen. Sarà lì solo il giorno 9 e non attenderà la conclusione dei lavori. Con la decisione sulle mine, gli Usa restano uno dei 14 Paesi, comprese Russia, Cina ed India, a non aver aderito al trattato. Paradossalmente, a negare la sua firma alla convenzione i cui promotori vennero premiati con Nobel per la pace è Obama, che riceverà il premio il 10 dicembre. La dichiarazione del portavoce del dipartimento di Stato ha messo in luce gli ostacoli che affollano la via del cambiamento intrapresa da Obama. L’Amministrazione rispetta la sostanza del trattato, avendo smesso di usare le mine antiuomo dal 1991, di esportarle dal 1992 e avendone sospeso la produzione dal 1997. Ma «ha determinato che non sarebbe in grado di garantire la propria sicurezza nazionale, o gli impegni assunto con amici ed alleati, se firmasse la convenzione», ha affermato il portavoce, Ian Kelly. Washington intende riservarsi il diritto di riprendere l’uso o la produzione delle devastanti armi, anche se così facendo si attirerebbe l’ira della comunità delle nazioni. L’Amministrazione si risparmia anche il problema di liberarsi delle 10 milioni di mine presenti nel suo arsenale. Firmare la convenzione, insomma, legherebbe le mani dell’Amministrazione in un modo che non è disposta ad accettare. La stessa motivazione addotta da George W. Bush. A farlo notare sono stati i responsabili delle organizzazioni umanitarie, come Steve Goose della Human Right Watch. «La decisione è in palese contrasto con gli impegni assunti da questa Amministrazione di una maggiore cooperazione con la comunità internazionale – ha detto –. Impegno che è stato uno dei principali argomenti nella motivazione del premio Nobel». Prevedendo queste proteste, Kelly si era affrettato ad aggiungere che gli Stati Uniti parteciperanno come osservatori alla conferenza internazionale sulle mine che si terrà la settimana prossima in Colombia. Ed ha difeso l’impegno di Washington nello sminamento: «Gli Stati Uniti sono il più generoso contributore per lo sminamento, con oltre 1,5 miliardi di dollari versati dal 1993».