Mondo

Haiti. Tra musica e libri, gli eroi quotidiani che salvano la gente dalle gang

Lucia Capuzzi, inviata a Port-au-Prince domenica 8 settembre 2024

Un miliziano di una gang criminale nel quartiere di Solino a Port-au-Prince

Uno sopra l’altro, i libri s’innalzano in una pila traballante adagiata sul tavolo centrale. Intorno i ragazzi si sistemano come possono nella stanza al piano terra in cui è allestita la biblioteca. Qualcuno si ritaglia uno scampolo di scrivania, altri camminano nervosamente, altri ancora si accovacciano per terra, immersi nell’ultimo, febbrile ripasso.

Kathrine, apparentemente immune dalla frenesia circostante, attende il proprio turno per utilizzare uno dei quattro pc disponibili. «Devo approfittarne. A casa o manca l’elettricità o il segnale Internet», spiega le 24enne, laureanda in Amministrazione d’impresa: nell’attesa va a chiacchierare con la collega Myriam, 20 anni, nel patio adiacente, inondato dal sole tropicale. In questa mattina di fine estate, mentre gli esami incalzano, la vita, dietro il portone bianco dell’Università Cattolica Notre Dame di Portau- Prince, sembra scorrere quasi normale.

Se non fosse per il tonfo sordo che, di tanto in tanto, dalla strada si insinua nelle aule dell’ateneo. Ogni volta, i corpi degli studenti hanno un lieve sobbalzo, seguito da scambi fulminei di occhiate cariche di nervosismo. Poi, però, gli sguardi tornano a fissare le pagine aperte, testardi. «Non ci si abitua mai. Eppure è ormai il nostro sottofondo costante. Il peggio è quando cominciano durante l’interrogazione. Non è facile restare concentrati mentre pensi: “Riuscirò a tornare a casa?”», afferma Darhmel, 20 anni, senza esplicitare a che cosa si riferisca. Non è necessario.

Le prove del coro della Andrea Bocelli Foundation - L.C. / Avvenire

Chiunque ad Haiti conosce fin troppo bene il rumore degli spari. La facoltà di Scienze sociali, politiche ed economiche si trova nel quartiere di Belekou, a due passi dai centralissimi Champs de Mars, trasformati nel principale campo di battaglia tra la “federazione delle gang” – Viv Ansanm – guidata da Jimmy Chérizier alias Barbecue, e i brandelli di istituzioni rimasti.

L’intera area intorno al palazzo presidenziale e alla avveniristica torre fatta erigere da Jean Bertrand Aristide nel 2004 per celebrare i duecento anni di indipendenza è un susseguirsi di facciate sfregiate dai proiettili, di assi sbilenche prive di porte e di scheletri di finestre affacciati su strade ricoperte di bossoli. Il poco asfalto è stato dilaniato a colpi di machete per ostacolare il passaggio delle auto della polizia ancora funzionanti.

Di tanto in tanto, qualche abitante superstite, troppo anziano o troppo sfinito per unirsi all’esodo, fa capolino tra le macerie del nucleo primario della capitale che la comunità internazionale si era proposta, senza molta lungimiranza, di far rinascere a suon di miliardarie cattedrali nel deserto dopo il terremoto del 2010.

L’Università Cattolica, appena fuori dalla zona “off-limit”, si trova sulla linea del fuoco. «Nei primi tre mesi dell’anno, era impossibile per i ragazzi raggiungere la facoltà. Abbiamo, dunque, dovuto chiudere e trasferire le lezioni online. Ora, piano piano, stiamo cercando di riprendere in presenza almeno per le prove di fine corso che abbiamo dovuto ritardare», dice padre Jean Denis Saint Félix, superiore dei gesuiti e docente dell’ateneo. In questo contesto, non sorprende che due terzi dei 1.200 alunni abbiano lasciato le aule e cercato con ogni mezzo di fuggire all’estero. Stupisce, invece, che poco più di quattrocento siano rimasti e, ogni giorno, sfidino le bande per raggiungere, a bordo di tap tap - gli scassati e coloratissimi bus locali – le rispettive facoltà, decisi a terminare i corsi.​


«Non ho intenzione di partire, anche se quasi tutti i miei amici l’hanno fatto», sostiene Debora 20 anni, studentessa di Marketing. «Certo che ho paura. Non mi vergogno ad ammetterlo – le fa eco Darmhel -. Ma non lascio che il timore condizioni le mie scelte. Se andiamo via tutti, che cosa sarà di questo Paese? Voglio laurearmi in legge e fare l’avvocato: Haiti ha necessità di persone che difendano i diritti». «Come di politici seri e ammini-stratori efficienti – aggiungono Stanley e Richard, iscritti a Scienze politiche –. Per questo, siamo qui a preparare le prove».

Alla guerra in cui l’isola si dibatte da anni, nell’indifferenza del mondo, gli haitiani oppongono la più audace delle resistenze: quella dei gesti quotidiani. Studiare, lavorare, spostarsi, in una parola vivere e non solo sopravvivere, richiedono sforzi indicibili in un Paese in cui lo Stato è imploso e gruppi armati illegali spadroneggiano su frammenti di territorio urbano. «L’agonia haitiana dura da cinque anni ma ora la crisi ha assunto proporzioni inedite: i rapimenti sono diventati indiscriminati, le gang hanno dimostrato la capacità di bloccare il Paese, assistiamo a un esodo di massa interno ed esterno, la violenza si è fatta sistema», sottolinea Saint-Félix.

Con la stessa forza con cui, oltre due secoli fa, si è liberato – primo nel pianeta - dalla schiavitù, a costo dell’ostracismo globale, però, questo popolo combatte per continuare ad esistere, dimostrando una resilienza fuori dal comune. Kenbe fém, si dice in creolo ovvero “tenere duro”, arte in cui gli haitiani sono maestri. Eppure, distratta da altri interessi ed emergenze, la comunità internazionale si ostina a guardarlo con un misto di pietà e sufficienza. Haiti viene liquidata come causa persa. Gli intenti passati di aiutarlo sono naufragati per l’eccesso di corruzione e violenza, si dice, dimenticando gli enormi errori commessi: dai diktat neoliberisti “made in Usa” che hanno polverizzato l’agricoltura nazionale alla ricostruzione post-sisma calata dall’alto senza nessuna aderenza al contesto.

Il mondo liquida l’isola come una causa persa
per giustificare la propria inerzia
La resilienza fuori dal comune
degli abitanti, però, dimostra il contrario

È la capacità degli haitiani di resistere a contraddire palesemente il comodo determinismo delle grandi potenze. Come ogni mattina, Francis ha percorso la manciata di strade tra casa sua e la clinica Elohim, della Chiesa avventista, a ridosso del centro. Non ha indietreggiato, anche se d’istinto avrebbe voluto, quando è arrivato all’angolo di rue Janvier dove, l’11 gennaio, un gruppo di quattro ragazzini l’ha rapito e tenuto prigioniero per tre giorni in uno stanzino buio, insieme ad altre undici persone, senza acqua né cibo, fin quando la famiglia non è riuscita a racimolare i soldi per il riscatto. «Ho respirato e sono andato avanti. So che potrebbe accadere di nuovo. Ma so anche che se smetto di venire la gente del quartiere resterà senza cure. Siamo l’unico ospedale rimasto nel quartiere. Così mi faccio coraggio e vengo al lavoro».

Anche per Paul Cliff Peterson, 19 anni, non è facile attraversare le barriere invisibili disegnate dalle gang per uscire dalla baraccopoli di Cité Soleil e addentrarsi a Tabarre, dove si trova la sede della Fondazione Saint Luc. Non può, però, farne a meno. «Solo quando canto mi sento davvero vivo. È come se il cuore riprendesse a battermi. Allora credo ancora che ci sarà un futuro per me e per questo Paese».

Come ogni sabato da otto anni, dunque, anche stavolta si presenta puntuale alle prove del coro Abf Voices of Haiti, promosso dalla Andrea Bocelli Foundation. Appena il maestro, Delice Wenson, fa un cenno con la mano, i sessanta ragazzi tra i 14 e i vent’anni ammutoliscono di colpo. Le dita del pianista, Staffon Laguerre, sfiorano la tastiera: una dopo l’altra le voci si fondono fino a diventare un’unica, dirompente melodia. Il brano è “La nuit”, del compositore Jean-Philippe Rameau. Dentro, però, c’è tutto il battito dolente e inarrestabile del cuore di Haiti. Il direttore Delice è soddisfatto. «Hanno fatto un lavoro impressionante. Non è solo questione di talento. Il segreto della musica è la disciplina. E loro ne hanno dimostrato tantissima. Si sono impegnati al massimo in condizioni estreme.

Perfino nei momenti più duri della guerra, hanno continuato a studiare». I coristi stanno per concludere il percorso. In autunno otterranno il diploma: sessanta nuove leve del canto, accuratamente selezionate, daranno vita al coro successivo. I neo-diplomati, grazie alla Abf, invece, potranno frequentare l’università. Cliff sogna di diventare dottore e continuare a cantare. «Medicina e musica sono molto simili – conclude –. Entrambe curano. La musica mi ha salvato. Mi ha insegnato che l’orrore non è l’unica realtà. La vita resiste».