L'analisi. Pragmatismo contro ideologia: la guerra nella guerra di Gaza
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu
Nell’aspra e per il momento irrisolvibile contesa che oppone Israele ai suoi molti avversari e nemici si scorgono tuttavia alcune evidenze di cui dobbiamo tener conto. La prima riguarda il destino di Benjamin Netanyahu. Politicamente l’uomo è già morto ed egli stesso è il primo a saperlo. Come cinquant’anni fa lo aveva compreso Golda Meir, che benché vittoriosa alle elezioni politiche offrì le sue dimissioni insieme a quelle del ministro della Difesa Moshe Dayan a causa delle crescenti proteste da parte dell’opinione pubblica a conclusione della guerra dello Yom Kippur. Anche Netanyahu da settimane è travolto da un vento di ribellione culminato ieri mattina nell’irruzione alla Knesset di un gruppo di parenti degli ostaggi. Ma già da mesi un’onda di protesta coagulatasi attorno alla riforma giudiziaria promossa dal premier aveva di fatto spaccato in due la società israeliana. Un falò civile che si è riacceso dopo che il 2 gennaio scorso la Corte Suprema ha bocciato una parte cruciale della riforma voluta dalla destra israeliana.
La seconda evidenza è la guerra di Gaza, lo scontro irriducibile fra Hamas, e lo Stato di Israele. Una Hamas la cui ragione sociale, ricordiamolo, rimane irrevocabilmente «la cancellazione dell’entità sionista» - come Teheran e i suoi alleati, da Hamas a Hezbollah, dal Bahrein fino agli Houthi yemeniti definiscono usualmente Israele. Una guerra le cui tragiche conseguenze, dal pogrom del 7 ottobre fino all’offensiva di Tzahal sul campo, mietono ogni giorno un insostenibile numero di vittime. Una deriva alla quale Netanyahu stesso non riesce e forse non può sottrarsi: ha promesso ai suoi una vittoria impossibile e continuerà a perseguirla. Sapendo che una volta presentate le dimissioni sarà avvolto da una girandola di guai giudiziari, dalle frodi sui fondi pubblici ai regali ricevuti in cambio di favori da facoltosi uomini d'affari agli accordi per pilotare le notizie su Yedioth Ahronoth, il maggiore quotidiano israeliano.
Sullo sfondo, c’è un’altra e più vasta guerra. Quella che si combatte con alterna intensità in tutto lo scacchiere mediorientale e che coinvolge - oltre a Israele e Hamas e di riflesso gli Stati Uniti e la Gran Bretagna - gli Hezbollah libanesi dello sceicco Nasrallah, l’Iran, il Libano, la Siria, l’Iraq, lo Yemen, il rinato Daesh, quel che resta di al-Qaeda, i curdi, e, da ultimo, il Pakistan, Paese islamico in possesso dell’arma nucleare. Ma attenzione, proviamo a esaminare in filigrana le ragioni prime dell’allargarsi di quel conflitto. Al di là della mai sopita litigiosità regionale di quasi tutti quegli attori, scopriremmo senza sforzo che della questione palestinese dentro il divampare di tanti focolai c’è ben poco. C’è viceversa molto pragmatismo, inteso come il prevalere di un fine concreto a discapito delle istanze etiche o morali e perfino delle ideologie. Quel pragmatismo che non è difficile riconoscere nel sostanziale appeasement nei confronti del conflitto da parte di Paesi come l’Egitto e la Giordania o come l’Arabia Saudita e gli Emirati. Attori esitanti, a tutti gli effetti. Paesi cioè che per quanto non siano mai stati esenti da strizzatine d’occhio all’integralismo islamico (pensiamo solo ai generosi finanziamenti che Qatar e sauditi hanno da sempre fatto al mondo wahabita e segnatamente anche ai “falchi” di Gaza) non sono per nulla interessati né incentivati ad allargare il conflitto in Medio Oriente. Al contrario, Riad, come Amman, Il Cairo e le silenti petromonarchie del Golfo sono in stand by, in attesa che si ricrei il clima favorevole con il quale vennero avviati nel 2020 da Donald Trump quegli Accordi di Abramo che prevedono il mutuo riconoscimento e la vantaggiosa partnership commerciale fra il mondo arabo e Israele. Pragmatismo al posto di ideologia, buoni affari contro derive integraliste. Una musica che tutti, dagli emiri al presidente Al-Sisi ascolterebbero molto più volentieri del crepitare delle armi automatiche. Unico – se così si può dire – impaccio: come e quando uscire da questo quagmire (il “pantano” di memoria vietnamita) mediorientale?
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