La forza delle armi. Da Mosca gli Africa Corps: l'ex Wagner detta legge nel Sahel
Un reparto dell’Africa Corps nel Sahel: il gruppo ora risponde alla Difesa russa
Sembra avere il vento in poppa il rinascimento africano della Russia, imperniato su una diplomazia economica e militare che seduce parte delle élite continentali, attrae partner vecchi e nuovi, strizza l’occhio a giunte golpiste e soppianta la Francia come gendarme di Paesi in fermento. La strategia abbina pragmatismo e identità di visioni politiche. È lontana anni luce dai condizionamenti democratici, a geometria variabile, che informano le relazioni occidentali con il resto del mondo. Propone alternative; sfrutta un certo sentimento antifrancese e antioccidentale; lo fomenta con infiltrazioni di “troll” sui media sociali e con la nuova Iniziativa africana, tutta incentrata sulla sfera informativa.
Sembra passata un’era dai fasti del franco Cfa e dalle operazioni transalpine Serval e Barkhane, in quel Sahel un tempo cortile di casa francese, coloratosi piano piano di insegne dell’Africa Corps russo e prima ancora del Wagner Group, i paramilitari che fungono da ariete di sfondamento della penetrazione militare russa, ora gestita direttamente dal ministero della Difesa, dall’intelligence militare e da due uomini chiave: il viceministro della Difesa, generale Yunus-bek Yevkurov, e il generale Andreij Averyanov, che supervisiona l’Africa Corps e che comandava fino a poco tempo fa il 161° centro del Gru, il servizio di azione speciale. Racconta l’Istituto polacco per le relazioni internazionali che i due erano in viaggio nell’area nell’estate 2023, per rinfrescare gli accordi bilaterali con Algeria, Mali, Niger, Burkina Faso, Centrafrica e Libia: la cintura di sicurezza russa in Africa, con una megabase in itinere in Centrafrica e un meccanismo vincente per le varie parti, fatto di protezione in cambio di diritti minerari. La rivoluzione geopolitica avvolge il sud del mondo, ridisegna sfere d’influenza e porta a un declassamento strategico dell’Occidente.
Mosca, Pechino, Ankara e Dubai sono nuovi punti di riferimento anche per i Paesi africani. A parte Ankara, che ha inoltrato richiesta ai primi di settembre, le altre tre capitali fanno già parte del polo dei Brics, in continua espansione e sempre più aperto ai Paesi africani, ai neo-membri Egitto ed Etiopia, e al Sudafrica dal 2010. La Russia schiera al sud il meglio del suo nuovo capitalismo economico, non meno predatorio di quello altrui, combinando l’azione dei colossi di stato e dei gruppi privati. Gazprom, Rosneft e Lukoil sono le punte di lancia, affiancate da Rusal e Rosatom nel settore minerario e nel nucleare civile. Nonostante la perdita del mercato sudafricano, l’ultima ha progetti di cooperazione non solo con l’Egitto, ma anche con l’Algeria, la Nigeria e lo Zambia. I documenti di politica estera del Cremlino parlano chiaro: marginale nella dottrina del 2016, l’Africa ha acquistato una centralità inedita nel documento del 2023 e le visite ufficiali di Sergeij Lavrov confermano il dato. Il numero uno della diplomazia russa va spesso nel Continente: ai primi di giugno era in Guinea, Congo Brazaville, Burkina Faso e Ciad.
La cosa non sorprende, perché il Cremlino ha relazioni diplomatiche con tutti gli Stati africani e una rete di ambasciate in 49 dei 54 Paesi continentali, il cui voto pesa all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Lo si è visto al tempo delle risoluzioni contro la Russia per la guerra d’invasione in Ucraina: grazie alla tiepidezza africana, il Cremlino si è sentito un po’ meno isolato. Oggi ha accordi di cooperazione militare con quasi tutti i Paesi continentali, forieri di aiuti militari, addestramento e partnership antiterroristica.
20
sono le nuove intese militari fra la Federazione Russa e gli Stati africani dal 2015 ad oggi, in crescita rispetto alle sette iniziali
30%
la quota russa del mercato africano delle armi, dove si delinea da tempo una concorrenza multilaterale e una illegalità diffusa
18 miliardi
di dollari: è l’ammontare totale nel 2023 dell’interscambio commerciale fra la Russia e l’Africa
400%
è quota percentuale di crescita (nell’ultimo decennio) degli scambi russi con l’Africa
1 %
è il peso approssimativo rappresentato dagli investimenti diretti esteri russi destinati all’Africa
49
sono i Paesi africani (quasi la metà del Continente) nei quali la Russia, nel corso degli anni, ha aperto un’ambasciata
Nel giro di pochi anni la crescita è lampante: da 7 a più di 20 nuove intese, anche con Angola (dove Joe Biden, tardivamente, compirà la sua prima visita africana entro ottobre), Guinea, Guinea-Bissau e Mauritania. Rosoboronexport, monopolista russo per l’export di armamenti, è premiato da molti paesi continentali, che si approvvigionano in Russia per il 30%. Ma il grosso degli affari viaggia con i paesi del Maghreb e altrove deve fronteggiare la concorrenza agguerrita dei prodotti sino-turchi-emiratini. Pesano pure l’embargo statunitense e la mannaia delle sanzioni per i contraenti (Caatsa), che avrebbero scoraggiato Guinea e Benin dai propositi di acquisto, spingendo molti Paesi africani a diversificare le compere più che in passato. Anche se al salone aerospaziale egiziano Rosoboronexport mostrava alcune delle sue migliori tecnologie, l’esposizione cinese era più corposa e le fortune africane della Russia si incroceranno con il futuro della guerra in Ucraina, già traboccata in Sudan e Mali. Tolti i mercenari, le armi e le ambizioni Mosca ha margini invero limitati: secondo dati del Valdai Club, il suo interscambio con il Continente nero è aumentato del 400% nell’ultimo decennio.
Ma non supera i 18 miliardi di dollari, con una quota di mercato più simile al 4-5% olandese che non al 27-28% cinese. Negli aiuti umanitari e allo sviluppo c’è chi fa molto meglio di lei, a partire dalla vituperata Parigi che ha aumentato gli stanziamenti a 10-12 miliardi di euro l’anno. Eppure il presidente Vladimir Putin coltiva sogni di grandezza. Pensa ai sovietici che avevano una presenza militare nell’Oceano Indiano, una quinta Squadra per il Mediterraneo e accessi in Guinea e in Angola. Negli anni 70, l’Urss aveva 40mila consiglieri militari all’opera in Africa e godeva di facilità navali in Yemen, in Egitto e in Libia. Oggi il Cremlino ha molto meno da offrire. La sua flotta è ridotta a un decimo di quella sovietica e i suoi mercenari non sempre brillano: hanno subito rovesci cocenti in Mozambico, perdendo affari e contratti, e di recente sono incappati in una nuova sconfitta contro i tuareg maliani, dopo i successi a Kidal. Nonostante tutto, Mosca ha un’impronta crescente, dal Sudafrica, al Congo, al Madagascar. Suoi soldati di ventura lavorano in Libia, nella triplice alleanza del Sahel e in Centrafrica. Il Cremlino usa la Cirenaica come piattaforma logistica, snodo dei militari diretti a sud e crocevia delle armi. Ha un’influenza innegabile sui contendenti della guerra civile sudanese.
Punta a una base navale, a insediarsi a Port Sudan, e a penetrare nel Mediterraneo, con Tobruk nel mirino, per disegnare una rotta fra la siriana Tartus, Suez, l’Oceano Indiano e il Golfo Persico.
Manovra in mare con il Sudafrica e corteggia l’Africa della sfera d’influenza portoghese, facendo capolino nel Golfo di Guinea. Si propone al Ciad, ultimo avamposto francese. Il 24 gennaio scorso, il presidente Mahamat Déby Itno ha incontrato Vladimir Putin, sperticandosi in proclami inequivocabili: «Sono venuto da un paese amico, un paese fratello e sovrano che ambisce a rafforzare i rapporti con un governo amico». Anche Putin ha elogiato Déby per la capacità dimostrata nello stabilizzare il Ciad e ha enfatizzato il miglioramento dei rapporti bilaterali negli ultimi anni, pur dimenticandosi di dire che, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, N’Djamena ha condannato l’invasione dell’Ucraina. Pur volitivo, l’Impero africano della Russia è un Giano bifronte: luccica, ma è fragile e controverso.