Il caso. «La crisi climatica rovina le nostre vite». In aula i ragazzi contro l'Europa
Ad accompagnare i giovani fuori dalla Corte sono arrivati attivisti da varie parti d'Europa
Sono entrati alla Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) a testa alta. Un po’ emozionati e nervosi certo, ma affatto intimiditi. Sono usciti dopo qualche ora amareggiati ma ancora più determinati a combattere. «Sono sconcertato dalle risposte dei difensori dei governi. Hanno cercato di minimizzare i fatti, ignorando le prove...», dice ad Avvenire il 15enne André Oliveira, uno dei sei millennial portoghesi che sono riusciti a portare sul banco degli imputati 32 Stati europei – i 27 dell’Ue più Norvegia, Svizzera, Russia, Gran Bretagna e Turchia – con l’accusa di non impegnarsi abbastanza contro il riscaldamento globale. «Restiamo comunque ottimisti: la Corte finora si è mostrata disponibile – aggiunge –. E siamo convinti che abbia ben chiara l’urgenza della questione». Sono già trascorsi sei anni da quando l’azione legale è iniziata, nel 2017, dopo che una serie di incendi anomali avevano ucciso un centinaio di persone e devastato la regione di Leiria, dove vivono i ragazzi, all’epoca bambini. Mariana Agostinho lo è ancora: ha appena 11 anni, mentre i fratelli Claudia e Martim ne hanno rispettivamente 24 e 20. Poi c’è la sorella di André, Sofía di 18 anni e la cugina Catarina Mota di 23. È quest’ultima a raccontare l’esordio di questo processo assolutamente inedito. «La morte di tutte quelle persone, le fiamme, il fumo sono stati un incubo. Non potevamo dimenticare, soffrivamo d’ansia, insonnia, stress. L’idea di fare qualcosa è venuta a Claudia che si è messa a cercare e ha trovato Global legal action». L’organizzazione ha lanciato un crowfunding per finanziare il procedimento: in breve, ha raccolto 100mila euro. Insieme a Youth 4 climate justice, il ricorso ha preso forma. «Anche se è stato tutto molto lento. Questa è stata la cosa più difficile: avere pazienza», sottolinea Martim. «Ne è valsa, però, la pena – esclamano in coro i sei –. Abbiamo già raggiunto un risultato senza precedenti. Siamo arrivati a Strasburgo, fino alla Gran Camera». I suoi 17 magistrati discutono solo una manciata di istanza, scelte fra le più importanti. Inclusa quella dei sei millennial. Rare volte, tuttavia, la sala principale della Corte è stata tanto affollata: seicento le persone presenti. Oltre ai protagonisti, ai rappresentanti dei 32 Paesi incriminati e i loro difensori, in aula c’erano attivisti di varie nazioni, tra cui un gruppo di studenti dell’Università Federico II di Napoli. «Questo ci dà molta forza. Anche noi siamo stati ispirati dalle oltre 80 cause intentate nel pianeta per chiedere ai governi di farsi carico dell’emergenza climatica – afferma Martim –. Le corti nazionali, però, non hanno fatto abbastanza. La Cedu è, dunque, la nostra ultima speranza». Proprio questa è l’argomentazione su cui si basa l’impianto legale della causa. «Nonostante le sentenze positive in Germania e Olanda, i tribunali nazionali europei si sono limitati ad esigere dai governi misure minime per restare sotto la soglia dei 2 gradi. Stavolta, invece, chiediamo alla Cedu di obbligare tutti i 32 Stati a tagliare le emissioni in modo drastico per mantenere le temperature sotto gli 1,5 gradi», spiega il legale di Global legal action, Gerry Liston. E precisa: «I tribunali non fanno le leggi. I giudici non possono dire ai governi come ridurre l’inquinamento o quali politiche climatiche adottare. Possono, però, valutare se le azioni complessive poste in essere sono sufficienti per contenere il riscaldamento a 1,5 gradi. Ed è evidente che non lo sono. La Cedu può dire, e speriamo lo faccia, che in questo violano i diritti umani dei sei ricorrenti». «Come potrebbero non riconoscerlo? La crisi climatica ha cambiato in peggio le nostre vite. Le estati sono torride in modo anomalo, non possiamo uscire, fare attività all’aria aperta, per non parlare dell’ansia per il futuro. È evidente che l’intensificarsi dei fenomeni estremi non è normale», dice Sofía. Se la Corte si pronunciasse a favore dei sei, il verdetto equivarrebbe a un trattato giuridicamente vincolante per i 32 Stati in questione. A cui ciascuno dovrebbe adeguare le rispettive normative. La decisione, tuttavia, non sarà immediata. Si prevedono almeno nove mesi di attesa. Pochi rispetto ai sei anni trascorsi. Tanti per il pianeta in emergenza. E per i suoi abitanti.