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I profughi. Giordania, «La guerra non ha cancellato Dio»

Francesco Riccardi sabato 8 febbraio 2014
«Ha guardato la croce che il mio amico sacerdote aveva al collo, poi con l’ingenuità e il fare diretto di un bambino di 6-7 anni appena, ci ha chiesto a bruciapelo: “Ma Dio è ancora vivo? E dov’è adesso? Perché io non credo più che esista. Non c’era quando hanno ucciso mio papà davanti a me, quando hanno preso e portato via mia sorella. Non c’era…”». Wael Suleiman, direttore della Caritas giordana ricorda quell’incontro nel campo per i profughi siriani di Zaartari, nel Nord della Giordania, che lo ha lasciato senza parole. «Io non ho saputo cosa rispondere e guardavo il mio amico prete, sperando che lui sapesse trovare le frasi giuste. Ma era troppo commosso e in quel momento, l’unica risposta “giusta” sono state le lacrime, l’abbraccio e la vicinanza che portavamo a questo bambino e a sua madre», fuggiti a piedi per decine di chilometri, via dagli orrori della guerra in Siria.Sono belli i bambini siriani, come belle sono le donne scappate da un conflitto senza tregua. Vittime due volte: delle violenze in patria, del degrado e della miseria che li attende da rifugiati qui in Giordania, come in Libano. «A scappare sono soprattutto donne sole con i figli. Perché i mariti sono morti o restano a combattere – racconta Suleiman –. E così queste famiglie sono estremamente fragili. Donne sole, con 5, 8, qualcuna persino 15 figli. Quando le raggiungiamo con gli aiuti qualche bambino è stato già venduto, le figlie di 12, 13 anni promesse in spose a qualche ricco uomo d’affari del Golfo. Queste stesse madri si sono già vendute e a volte continuano a vendersi per 20 dinari. Sono belli i bambini siriani, sono belle le donne siriane…». Vittime due, tre, infinite volte. Per Suleiman quella della Siria non è un’emergenza, «ormai è una catastrofe, alla quale non si comprende come il mondo possa restare così indifferente». Non solo i politici, i responsabili di governo, «ma noi stessi». Ci stiamo tragicamente abituando: «Abbiamo il televisore acceso mentre mangiamo, sentiamo parlare dei morti, delle persone che scappano senza avere più nulla e… continuiamo a mangiare un’altra fetta di pizza e un bicchiere di aranciata. C’è un’inerzia spaventosa: le istituzioni internazionali fanno qualcosa ma troppo poco, i governi occidentali non premono abbastanza e non si riesce nemmeno a far arrivare aiuti adeguati all’interno della Siria».L’accoglienza dei profughi siriani in Giordania è stata immediata e «a braccia aperte, da fratelli», ma ha ormai dimensioni problematiche. Ufficialmente, infatti, sono registrati circa 600mila rifugiati, ma le stime più realistiche parlano di 1,3 milioni di fuoriusciti dalla Siria presenti nel Paese. Che si aggiungono a 2 milioni di profughi palestinesi, 500mila iracheni e 900mila immigrati egiziani in cerca di lavoro, in un Paese di non più di 6 milioni di abitanti. Ed è proprio il lavoro, assieme all’istruzione, uno dei nodi fondamentali. I tanti profughi entrati “illegalmente”, non registrati, di fatto non potrebbero lavorare. In realtà sono spesso occupati in attività in nero a salari ridotti. Questo sta generando una compressione al ribasso degli stipendi e una sorta di concorrenza sleale nell’occupazione, che ovviamente è mal sopportata dai cittadini giordani. La concorrenza sleale avviene soprattutto nell’edilizia, nel commercio al minuto e nell’artigianato, con paghe che sono anche la metà di quelle normalmente riservate ai giordani e le “mafie” locali e i clan familiari fungono da intermediari.Anche se tensioni pericolose fra i diversi gruppi per ora non si sono verificate, anzi sono prevalsi i sentimenti di fratellanza, in particolare nel Nord del Paese dove più stretti erano i legami pure prima della guerra. In questo quadro, la Caritas giordana ha assicurato lo scorso anno oltre 300mila interventi di aiuto, di cui 155mila circa a cittadini siriani (il resto a iracheni, palestinesi e famiglie giordane in condizioni di bisogno), per il 95% di religione musulmana. Sia distribuendo “voucher” per acquistare beni alimentari e non, grazie anche a un accordo con la struttura cooperativa dei militari giordani, sia garantendo nelle proprie cliniche assistenza sanitaria. Come quella assicurata a oltre 900 famiglie siriane dalle 6 suore comboniane che operano (con personale giordano) nell’ospedale italiano di Kerak, la presenza cattolica più a sud di tutto il mondo arabo. Ma più ancora ascoltando i bisogni, consigliando, offrendo assistenza psicologica contro gli «incubi dell’orrore che questi bambini hanno negli occhi», garantendo loro la possibilità di studiare nelle scuole pomeridiane. Studiare come antidoto alla violenza e allo sfruttamento. «Spesso mi dico che la Giordania è un’oasi nel deserto, un’isola felice in un mare di conflitti che sconvolgono la regione mediorientale – riflette il direttore della Caritas –. Un’oasi nella quale cercare almeno di ridare un progetto di vita e una speranza a una generazione di giovani palestinesi, iracheni, siriani, che ha conosciuto solo guerra e violenza, oppressione e vendetta. Come può crescere una generazione così?».La risposta a quel bambino di Zaartari, allora, arriva così, nei tanti gesti di accoglienza. «Questa è la nostra responsabilità e la nostra missione oggi – conclude Suleiman – non solo far arrivare aiuti materiali, ma comunicare con la nostra vita e la nostra vicinanza che Dio c’è. Che ha ancora un disegno buono per ognuno di noi. Che ancora c’è speranza. E la guerra non ha distrutto tutto, gli uomini non hanno cancellato Dio».