Asia. Giappone: la prefettura di Mie vieta l'outing, contro le discriminazioni
Folla a Tokyo
La prefettura di Mie, nel Giappone centrale, ha approvato un’ordinanza che proibisce di rivelare le proprie «inclinazioni o identità sessuali se non con espresso consenso o motivazioni ritenute valide». Una iniziativa, non vincolante ma la prima a coinvolgere una delle 47 prefetture dell’arcipelago, che entrerà in vigore ad aprile e che mira, secondo le parole del governatore Eikei Suzuki, a «realizzare una società dove venga riconosciuta la diversità sessuale».
Tuttavia, l’ordinanza, che vorrebbe stimolare un dibattito aperto sulla questione, mostra anche la difficoltà di intervenire, dato che se la legge giapponese non punisce l’omosessualità, nemmeno però sanziona la discriminazione che subiscono. Ad esempio, nel mondo del lavoro, con il rischio di sanzioni, emarginazione o perdita dell’impiego. In questo senso, il provvedimento di Mie si allinea con le linee-guida proposte dal governo centrale e in vigore dallo scorso giugno indirizzate unicamente alle grandi aziende. Un’insistenza sul solo piano occupazionale e che non arriva al nocciolo – culturale – del problema. Per questo molti attivisti Lgbt hanno chiesto provvedimenti che sanzionino ogni pressione volta a spingere un individuo a dichiarare la propria identità sessuale per il «rischio che si esponga a ritorsioni e emarginazione».
Una questione non di secondo piano, in un Paese dove nel 2019 un sondaggio ha segnalato che il 10% degli abitanti si qualifica come appartenente alle cosiddette «minoranze sessuali» ma dove questa ammissione può avere conseguenze pesanti e persino mortali. Come nel caso di uno studente che nel 2015 si tolse la vita nell’Università Hitsubashi a Tokyo per le conseguenze negative della sua ammissione di «diversità». La reazione dell’opinione pubblica portò la municipalità dove è situato l’ateneo a bandire, per prima in Giappone, l’outing.