Venezuela. Arrestati e torturati: il dramma dei ragazzi che Maduro chiama «terroristi»
Un parente dei giovani detenuti con le loro foto
Terrorista: così viene chiamato Miguel Urbina, sedicenne venezuelano in carcere da tre mesi dove viene sottoposto a torture quotidiane: calci, pugni, scosse elettriche. Talvolta nelle celle viene lanciato anche il gas lacrimogeno. Miguel ha detto a sua madre di non voler più mangiare. Il regime lo accusa di aver partecipato alle manifestazioni post-voto scoppiate la sera del 28 luglio contro Nicolàs Maduro, contestato per l'ultima frode elettorale e la persecuzione capillare contro ogni forma di dissidenza.
Irregolarità queste già denunciate dal Centro Carter in sede Onu e dallo stesso Parlamento Europeo, che a tale proposito ha consegnato il premio Sakharov 2024 all'ex candidato presidenziale Edmundo Gonzalez Urrutia e alla leader dell'opposizione Maria Corina Machado. «Ma Miguel non ha partecipato alle proteste», sostiene la madre mentre denuncia le condizioni inumane della sua prigionia: «L'ho trovato percosso, con segni di tortura; ha perso qualche chilo e non ha la possibilità di lavarsi». La storia di Miguel è anche quella di altri 68 ragazzi, tra i quattordici e sedici anni, accusati anche loro di terrorismo. Sono stati portati via durante la cosiddetta Operaciòn Tun Tun, che prevede irruzioni improvvise dei corpi di sicurezza nelle abitazioni di attivisti e sostenitori dell'opposizione. «Non vediamo l'ora di uscire da questo inferno», si legge in una lettera firmata dal giovane e da altri adolescenti compagni di cella: «Stiamo pagando per reati che non abbiamo commesso?».
Una via d'uscita era stata offerta dalle guardie a suo tempo: confessare per essere rilasciati. Dovevano dire in pubblico di essere stati pagati dall'opposizione per destabilizzare il Paese. Loro però non ce l'hanno fatta, subendo l'accanimento delle guardie. E dietro la loro Via Crucis restano soltanto le madri, che recentemente si sono recate alla prigione di Tocuyito, tra le più pericolose del Paese, per chiederne la scarcerazione. Qualche settimana prima erano andate davanti all'Unicef di Caracas. Hanno l'espressione stanca e lo sguardo colmo di ansia e disperazione. Ciascuna porta sempre con sé la foto del figlio: quei sorrisi ancora infantili, che non combaciano con le accuse di terrorismo. «Innocenti o meno, questi detenuti non contano sul diritto alla difesa», sottolineano gli avvocati di “Foro Penal”, associazione legale pro bono che assiste le persone detenute arbitrariamente: 18mila nell’arco di un decennio, di cui 9mila sotto libertà condizionata e quasi 2mila ancora dietro le sbarre. « È una storia già vista e il tempo non scorre a loro favore: assistiamo persone che da più di sette anni aspettano l'udienza preliminare».
Dal canto suo, il regime non si fa scappare alcun cenno di pietà. A confermarlo è il numero due, Diosdado Cabello, che all’emissione “Con el mazo dando” (cioè “Colpendo con la mazza”) ha bollato il caso come una «campagna mediatica dell'opposizione, in cerca di impunità per continuare a usare i figli del popolo». A pochi metri dal presepe allestito per il Natale anticipato per decreto, Cabello ha aggiunto che «si tratta di una battaglia che andrà fino in fondo, non importa quanto duri». E la «battaglia» può raggiungere chiunque, come sostiene Marta Valiñas, rappresentante della missione Onu nel Paese sudamericano, che ha denunciato «l'intensificarsi dell'apparato repressivo dello Stato in risposta a tutto ciò che viene percepito come critica». Tant'è che l'eccessivo uso della forza rischia di isolare il regime da quelli che un tempo, nell'era Chàvez, furono i suoi stretti alleati. Lo ha dimostrato il veto posto dallo stesso presidente brasiliano, Luiz Inàcio Lula Da Silva, sulla candidatura di Caracas ai Brics.