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L'intervista. «L'Italia è nel futuro del Tigrai, ma le truppe eritree bloccano la pace»

Paolo Lambruschi sabato 16 novembre 2024

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«L’Italia è uno dei pochi paesi che sta aiutando il Tigrai ferito a ripartire. Ma ora serve l'aiuto di tutta la comunità internazionale per ricostruire il sistema e per trovare l’equilibrio difficile tra giustizia e pace».
Due anni dopo l’accordo di Pretoria – fragile ma resiliente – tra lo stato regionale del nord Etiopia e il governo centrale e quattro anni dopo la guerra civile che ha causato 800mila morti e portato distruzione ovunque, Getachew Reda, 49 anni, presidente del Tigrai, è arrivato in Italia, al Lingotto di Torino, per partecipare al meeting annuale del Cuamm medici con l’Africa. Il leader tigrino, popolare tra la sua gente per la scelta di negoziare con il governo federale etiope di Abiy Ahmed per porre fine agli scontri è diventato 24 mesi fa presidente dell'amministrazione ad interim che prova a ricostruire la regione devastata.

Oggi è migliorata la situazione umanitaria in Tigrai?
Ci sono stati progressi in questi due anni, ma diverse aree non sono ancora controllate dall’amministrazione ad interim e sono occupate da forze anche di altre nazioni (l'Eritrea, ndr). Oltre un milione di sfollati vivono quindi in condizioni estremamente difficili, non possono rientrare nelle loro case e riprendersi le proprie terre soprattutto nel Tigrai occidentale. I problemi principali sono salute educazione e sicurezza alimentare. La guerra civile ha danneggiato enormemente l'agricoltura e le altre attività economiche mettendo in difficoltà buona parte della popolazione tigrina che dipende dagli aiuti umanitari. Sono stati presi di mira e danneggiati o distrutti ospedali, scuole e strutture pubbliche e la strada da fare è lunga per ricostruire e assicurare i servizi. Almeno non ci sono combattimenti nella maggior parte dei territori e gli accordi di Pretoria tengono e la armi tacciono. Questo è un risultato importante date le molte pressioni per proseguire la guerra.

Come reagisce la popolazione?

Con rabbia e frustrazione perché non si riesce a implementare l'accordo di pace e gli sfollati sono costretti a vivere nelle scuole e in campi. Siamo un popolo resiliente, ma questa grande sofferenza poteva essere evitata. Le persone malate, le mamme, i bambini muoiono per mancanza di cibo e medicine e la rabbia cresce. Dopo gli accordi di Pretoria sono stati ripristinati i rapporti con Addis Abeba. Lavoriamo insieme con i ministri federali, ci sono aree dove potremmo fare meglio, ma cooperiamo.

È possibile una soluzione pacifica della questione del Tigrai occidentale conteso tra tigrini e amhara?
Non ci sono alternative, l’obiettivo è che la pace sia rispettata da tutti e diventi duratura. Dobbiamo creare una piattaforma per ristabilire relazioni personali tra la gente, occorre far dialogare la popolazione con gli sfollati che devono poter tornare a casa. Continuiamo a lavorare sapendo che non sempre si può ottenere il massimo.

Come sono le relazioni tra Etiopia ed Eritrea?

Le truppe eritree continuano a occupare parti del Tigrai, soprattutto le zone di confine come ad esempio la regione degli Irob e questa è una responsabilità del governo federale etiope perché l'accordo di Pretoria prevede il ritiro di militari stranieri dal territorio. Comunque vogliamo fare la pace anche con gli eritrei, non si deve più parlare di guerra. Però crediamo che un meccanismo internazionale per dispensare giustizia sia imperativo, non si può negoziare senza il riconoscimento delle responsabilità. Bisogna trovare chi è stato accusato di violenze contro i civili e contro le donne. Accanto all'esercito federale etiope in Tigrai c’erano forze esterne anche di altri paesi, quindi va creata una commissione internazionale.

E come vi sta aiutando l'Italia?

È uno dei pochi Paesi che in modo esemplare sta assicurando con la cooperazione risorse per progetti per la riabilitazione e la ricostruzione di ospedali e centri sanitari, la fornitura di medicinali e materiale sanitario. In particolare quello che sta facendo il Cuamm in Tigrai è esemplare e incoraggiante. La cooperazione italiana sta facendo molto per salvaguardare il nostro patrimonio culturale

Le forti divisioni politiche in Tigrai mettono a rischio la pace?

Ci sono divisioni, è vero, ma serve unità per andare avanti. La nostra gente chiede solo pace.