Terra Santa. Gerusalemme, la città divisa unita dalla povertà
Il panorama di Gerusalemme
Prima e oltre lo scintillio labirintico della Città Vecchia, la linea di cessate il fuoco che da mezzo secolo la divide, le faglie dei blocchi politici internazionali, i quotidiani attriti per strada e le drammatiche contrapposizioni teologiche; prima e oltre lo stillicidio delle narrazioni che insistono su epica, odio e tragedia, prima e oltre, Gerusalemme è unita nella povertà.
Solo un anno fa l’Ufficio statistico centrale, think tank indipendente, spiegava come metà della popolazione di Gerusalemme vivesse sotto la soglia minima: 920 dollari per una persona, 1.480 per una coppia, 10.000 per una famiglia di cinque, secondo gli standard dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Gerusalemme (occupata nel settore Est dal 1967 e ulteriormente assorbita con la legge votata lunedì che impone, pur fra aperture e ambiguità, una maggioranza assoluta in Parlamento per la cessione di qualsiasi area a una «entità straniera») continua a essere la regione meno abbiente dello Stato israeliano. Poco è cambiato dal 2016. I dati pubblicati dal National Insurance Institute (ente israeliano) nei primi giorni di dicembre dicono che il 55% dei bambini vive ancora nell’indigenza.
È sufficiente uscire dalla militarizzata Porta di Damasco e dirigersi per un chilometro a nord, verso il quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, per verificarlo. La gente è abbandonata a se stessa. Il pattume è sparso per strada. Cartacce dagli usci dei bassi edifici. Macerie e legno da costruzione interrompono la sequenza delle case, nei cortili delle scuole materne i bambini girano su tricicli arrugginiti. Dalle numerose sinagoghe vengono i manifesti che sui muri chiedono decenza nell’abbigliamento e immobilità contemplativa nello Shabbat. Un mendicante mormora una litania a un incrocio, un altro tende la mano seduto davanti a un forno. Comunità chiusa, silenziosa. Gli uomini con le loro casacche nere, le donne fasciate dalle lunghe gonne opache e con i copricapi colorati. Solo il 20% fra i primi e il 50% delle seconde hanno un impiego. Un terzo del reddito proviene dai sussidi statali.
«Una direzione precisa, voluta dai loro leader», spiega la rabbina Idit Lev, fondatrice di Rabbis for Human Rights, Ong che oltre ai diritti e alle relazioni interreligiose si occupa di povertà. «Israele è uno Stato ebraico, e i saggi della nostra tradizione ci impongono obblighi precisi verso i più umili. Ma i nostri ministri provengono quasi esclusivamente dalle università economiche, dove s’insegna che è il mercato a dominare. In tanti anni di pressione siamo riusciti a convincere solo alcuni di loro che la povertà sia un problema».
Un milione e ottocentomila israeliani, il 22% della popolazione totale dello Stato, devono considerarsi poveri. Anche se per opportunità politica la cosa non viene pubblicizzata. «Il governo sta affrontando il problema, dai trasporti all’integrazione nel lavoro, ai sussidi per le abitazioni. Ma non è sufficiente, e alcuni ambiti sono totalmente ignorati. L’educazione per esempio: un bambino arabo di un’area abbandonata riceve ogni anno 67 shekel (16 euro) in servizi scolastici. Per un suo equivalente ebreo sono 2.100. Per i ceti più abbienti, oscillano fra gli 8 e i 9000», racconta Lev. «Il sistema è discriminatorio, la maggioranza dei poveri è araba. Ma bisogna includere anche immigrati africani, e i semplici cittadini, per i quali una multa in mora di 3.000 shekel diventa un problema insormontabile».
Ma perfino fra le strade di Mea Shearim muratori e imbianchini sono palestinesi. Dal grumo di case fatiscenti di Silwan si vede la cupola d’oro di al-Aqsa, piena e impossibile. Un popolo di gatti rovista fra la spazzatura, quando non è stata bruciata per supplire all’assenza dei servizi. Una donna trascina avvolto in un tappeto un coagulo di liquami, che abbandona sul marciapiede. I vecchi fumano affondati nei divani, per strada. Bambini in pigiama attendono muti dei cortili diroccati, o si concentrano in un gioco di sassi dove la plancia è un tombino. Sui muri la parola ricorrente è Allah.
La reazione esiste, e non solo nell’Intifada dispersa del venerdì. Nelle ultime settimane ogni sabato migliaia d’israeliani si sono riuniti nelle piazze di Tel Aviv. Protestano contro le diseguaglianze sociali e la legge, approvata giovedì con 59 voti contro 54, che impedirà alla polizia di produrre e rendere note le raccomandazioni o la messa in stato d’accusa fatte ai magistrati alla consegna del materiale investigativo, soprattutto quando questo riguarda chi ricopre un importante ruolo politico. «Ho sentimenti contrastanti riguardo il futuro», concede Idit Lev. «Da una parte percepisco il solito immobilismo. Dall’altra guardo alla società civile, alle associazioni composte da arabi ed ebrei, che prima non esistevano, e dicono cose nuove. Ma la strada è lunga. Lunghissima».
Etnia e religione: il peso statistico
Secondo i dati del National Insurance Institute (“Nii”, ente israeliano), raccolti nel 2016 e pubblicati lo scorso dicembre, sono 1,8 milioni gli israeliani a vivere sotto la soglia della povertà. Costituiscono il 22% della popolazione. Di questi, 842.300 sono bambini. Le appartenenze etniche e religiose caratterizzano il dato statistico. Fra i più colpiti ci sono gli ebrei ultra-ortodossi (15%), gli immigrati (17%), soprattutto quelli provenienti dal Continente africano, ma la stragrande maggioranza è rappresentata dagli arabi. Fra questi, però, il numero di coloro che vivono al di sotto dei 920 dollari mensili stabiliti come limite minimo è diminuito dal 2015, passando dal 53.5% al 49.4%. Un altro dato molto forte riguarda la popolazione beduina: il 58% (17.000 famiglie) e il 70% dei minori vivono sotto la soglia della povertà. Fra il 2015 e il 2016 il tasso di disoccupazione in Israele è sceso dal 5.3% al 4.8%. Il salario minimo è calcolato in 27 shekel l’ora (6,46 euro). Gerusalemme rimane l’area più emarginata del Paese. Il 55% dei minori che vi abitano sono poveri.