DAL NOSTRO INVIATO A GERUSALEMME I turisti che scendono le ampie gradinate e s’inoltrano nei tunnel sotterranei della 'Città di David' sono visibilmente emozionati. «Questo è il luogo dove tutto ha avuto inizio», spiega la giovane guida citando passi della Bibbia. Le mura della città vecchia sono alle nostre spalle: la 'Città di David' sorge a ridosso del Monte del Tempio, su una piccola collina bucata dagli scavi per riportare alla luce le vestigia di quel che viene ritenuto il nucleo più antico della capitale. Il sindaco, sostenuto dal governo, intende realizzare qui un grande parco archeologico che prenderà il nome di 'Giardino del Re'. E per farlo è deciso ad abbattere 88 case del quartiere palestinese di Silwan. «Finora hanno consegnato ventidue ordini di demolizione, hanno già raso al suolo cinque abitazioni», ci dice Fakhri Abu Diab, uno dei destinatari. Mostra con aria affranta il pezzo di carta con cui il municipio gli ha intimato lo sgombero. «Sono arrivati cinque uomini armati in assetto di guerra – racconta – hanno rotto il vetro della porta, mi hanno trattato come un delinquente». Dal quel giorno i suoi cinque nipotini lo guardano con sospetto: «Nonno, cosa hai fatto di male? Perché ci vogliono cacciare?». Fakhri non si rassegna, così come gli altri 1.500 palestinesi che subiranno il suo stesso destino. Proprio di fronte alle ruspe che dovranno spianare la zona hanno eretto un tendone che vorrebbe essere il quartier generale della resistenza. Campeggia una scritta: «Re David si batteva per gli oppressi, adesso nel suo nome distruggono le nostre case». Silwan è un intrico di viuzze e case basse ammucchiate disordinatamente sotto il Monte degli Ulivi, una favela che detiene il record della povertà e della disoccupazione, con un’altissima densità abitativa, oltre 50mila persone. Da qualche anno vi si sono insediati 400 ebrei ultra-ortodossi le cui case sono sorvegliate da poliziotti e guardie private (pagati con fondi pubblici). Girano per le strade dissestate e polverose del quartiere su grossi Suv coi vetri oscurati e protezioni di ferro per proteggersi dai lanci di pietre. Quasi ogni giorno esplode la collera dei ragazzi palestinesi con conseguenti sassaiole. La chiamano 'la piccola Intifada di Silwan', contro cui le autorità israeliane non esitano a usare le maniere forti. Nell’ultimo anno la polizia ha fermato e interrogato più di 1.200 ragazzi, non risparmiando loro insulti e percosse. Anche su bambini sotto i 12 anni, è l’accusa lanciata da un gruppo di medici e psicologi israeliani in una lettera aperta al presidente Shimon Peres. Silwan rappresenta la punta avanzata della strategia di penetrazione ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, rivendicata dai palestinesi come futura capitale del loro Stato. Ricche associazioni ultra- ortodosse comprano o reclamano edifici nella parte orientale della città. La più famosa è 'Elad', il cui presidente David Beeri lavora in stretto contatto con la municipalità di Gerusalemme e gestisce il turismo archeologico. Poi c’è l’organizzazione 'Ateret Cohanim', specializzata nell’acquisto e nell’esproprio delle case palestinesi. In genere, utilizza dei prestanome e viene allo scoperto solo dopo che il venditore se n’è andato all’estero per sfuggire alla vendetta degli abitanti del quartiere. Si moltiplicano le battaglie legali che finiscono quasi sempre con il tribunale israeliano che dà ragione agli acquirenti. Per Udi Ragones, portavoce di 'Elad', è tutto assolutamente normale. «In Israele c’è libertà – risponde serafico alle obiezioni –. Nessuno proibisce a un arabo di comprare casa a Gerusalemme ovest. Perché allora impedire ad un ebreo di acquistare a Gerusalemme est?». Nuclei d’insediamento ebraico sono ormai presenti in tutti i quartieri orientali, perfino in cima al Monte degli Ulivi, dove è stata issata una gigantesca bandiera d’Israele. «Neppure alla Knesset ne hanno una così grande», commenta il vecchio Abu Shain, che abita lì a fianco. E dove risulta difficile comprare scatta l’ordine d’esproprio. Nel quartiere di Sheikh Jarra, pochi metri al di là della Linea Verde, sono già 28 le famiglie palestinesi che hanno ricevuto lo sfratto. Come gli al-Gawi, arrivati qui nel 1956 in fuga da Haifa. La Corte non ha riconosciuto la validità dei loro documenti, risalenti al mandato giordano, ed ha attribuito la proprietà ai discendenti di una famiglia ebrea che abitava qui prima del 1948. Scortati dalle forze dell’ordine hanno preso possesso dell’edificio su cui hanno scritto trionfanti: «I figli sono tornati a casa!». La tensione è palpabile, alterchi e scontri sono all’ordine del giorno. «Se loro hanno diritto di riprendersi quel che avevano prima che venisse fondato lo Stato d’Israele, allora anche noi vogliamo riavere le case che siamo stati costretti a lasciare ad Haifa e a Jaffa», protestano i palestinesi di Sheik Jarra, che temono di venir cacciati una seconda volta. Ma da queste parti non esiste il principio di reciprocità. L’obiettivo evidente è quello di riequilibrare la demografia, aumentando la presenza ebraica nella zona araba. Una strategia di svuotamento progressivo dei quartieri palestinesi che s’accompagna alla costruzione di nuovi insediamenti israeliani nell’area che circonda Gerusalemme Est. Il negoziato con i palestinesi è bloccato, la moratoria sulle colonie proposta da Obama non è stata finora accettata dal governo Netanyahu, e così sono ripartiti i progetti edilizi che prevedono 625 nuovi appartamenti nella colonia di Pisgat Zeev, a nordest della capitale, e 130 nuovi alloggi a Gilo, verso sud-est. La domanda è elevata, anche perché chi sceglie d’abitarvi gode di forti agevolazioni fiscali e non paga tasse sulla casa e sui terreni. Ma per il governo israeliano non si tratta di colonie, bensì di nuovi quartieri all’interno del perimetro di Gerusalemme capitale. Il premier Netanyahu lo ha spiegato in un intervento di qualche mese fa all’Aipac (il Comitato per gli Affari Pubblici Israelo-Americani). «Il popolo ebraico costruì Gerusalemme 3.000 anni fa e continua a costruirla ancora oggi. Gerusalemme non è un insediamento, è la nostra capitale», ha detto il leader israeliano, ricordando che su questo punto il suo esecutivo ha mantenuto la politica dei governi precedenti, tanto laburisti che della destra Likud, e che l’annuncio di nuove abitazioni non viola nessuno degli impegni. «Tutto il mondo sa che questi quartieri (dove Israele pianifica le costruzioni) saranno parte di Israele in qualunque accordo di pace. Pertanto, costruire in quelle zone non impedisce la possibilità di una soluzione a due Stati», ha ribadito Netanyahu. Ma i palestinesi non sono d’accordo. «Il disegno è chiaro: si vuole separare definitivamente la zona orientale della città dal-l’entroterra, rompendo la continuità etnica e culturale tra Gerusalemme Est ed i Territori palestinesi, dove sorgono Ramallah e Betlemme – è la spiegazione di Khalil Tofakgi, già negoziatore palestinese negli anni Novanta ed esperto d’urbanistica. – Il futuro Stato palestinese? Nella migliore delle ipotesi sarà un insieme di cantoni collegati da stretti corridoi in mezzo a vasti insediamenti ebraici». 'Al Quds', la Gerusalemme araba, non ne diventerà mai la capitale. A Silwan e a Sheikh Jarra lo sanno bene. Non per nulla alle finestre delle case minacciate di sgombero hanno appeso le bandiere della Turchia, il Paese di Erdogan divenuto l’ultimo improvvisato avvocato della causa palestinese.