Netanyahu dice ancora no. La tregua deve attendere. Concede solo un cessate il fuoco di 12 ore, a partire dalle 7 (ora locale) di stamattina, accettando una richiesta del segretario di stato americano, John Kerry, e del segretario generale dell’Onu, Ban Kimoon. Decisione unilaterale di fronte alla quale non si conosce ancora la posizione di Hamas. Il no alla tregua resta, ufficialmente, perché andrebbero fatte alcune modifiche al testo, ma la verità dietro alla decisione è una sola: la missione per Israele, che ha perso 36 soldati in battaglia, non è compiuta. Il nuovo rifiuto è stato approvato all’unanimità. Il gabinetto di governo si è riunito alle 15 e alle 18 il premier Benjamin Netanyahu si è fatto convincere dai falchi del suo partito e della destra nazionalista. Il piano di tregua, concordato sempre tra il segretario di Stato americano John Kerry – che oggi si vedrà a Parigi con i colleghi occidentali –, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon insieme all’Egitto, era sostanzialmente questo: una settimana di stop ai combattimenti, da far iniziare domani, durante la quale si sarebbe dovuto pensare a una tregua più duratura. Nel piano iniziale Usa ci sarebbe stata anche la possibilità per l’esercito israeliano di rimanere all’interno della Striscia per continuare a localizzare e distruggere i tunnel. La cancellazione di questo punto, impossibile da far accettare ad Hamas, ha certamente contribuito all’irrigidimento della posizione israeliana. Una volta entrato in vigore l’eventuale piano di pacificazione, Israele e Hamas avrebbero comunque dovuto sedersi a un tavolo negoziale per definire un’ipotesi di intesa più vasta. Il leader del gruppo radicale palestinese, Khaled Meshaal, ieri, si era detto favorevole a una tregua, ma «non divisa in due fasi». L’accordo, a suo avviso, dovrebbe portare alla rimozione immediata dell’embargo che ha reso la Striscia, con i suoi 1,8 milioni di abitanti «la più grande prigione a cielo aperto del mondo». Secondo alcuni retroscena, ricostruiti dal
Jerusalem Post, ai generali israeliani non sarebbe piaciuto neanche l’imprevisto intervento del ministro degli Esteri turco Ahmed Davutgolu e di quello qatarino, Kalid bin Mohammed al Atiyah, che hanno incontrato, a sorpresa, il leader di Hamas Khaled Meshaal basato proprio a Doha. L’incontro sarebbe stato ispirato dal desiderio di spingere il capo politico palestinese ad accettare la proposta americana. Ma a Israele non sarebbero piaciute due cose: la presenza della Turchia, ai ferri corti con il governo di Gerusalemme, e l’influenza economica del Qatar sul partito palestinese. Il fallimento diplomatico ha spinto ieri Ban Ki-moon a spingere nuovamente per una tregua umanitaria, ottenendo la pausa di oggi, «perché i palestinesi hanno speso tanto sangue» di fronte a un bilancio pesantissimo: a Gaza sono più di 850 i morti, 170 dei quali sono bambini, ci sono poi 5.240 feriti, mentre gli sfollati, ormai 170 mila. Decisamente inferiori ma pesanti sono i danni anche per lo Stato israeliano, la cui crisi è passata ormai anche al piano economico con l’incertezza dei voli su Tel Aviv. Cancellati e poi ripristinati, i voli operati da molte compagnie aeree sono ripartiti, ma è apparso grave l’episodio verificatosi ad un volo di linea canadese, che ieri ha dovuto girare a vuoto più di mezz’ora prima di atterrare al Ben Gurion a causa dei missili lanciati Hamas nelle prossimità dello scalo internazionale.E precipita anche la situazione a Gerusalemme Est, dove ieri è stata incendiata una stazione di polizia israeliana nel cuore arabo della città. La tensione era montata dopo che i musulmani avevano invocato il «Venerdì della collera». Quello di ieri era infatti l’ultimo giorno sacro della preghiera prima della fine del Ramadan. Gli scontri sono avvenuti a ridosso della città vecchia (dove si trova la moschea al-Aqsa interdetta dalla polizia ebraica a tutti gli uomini con età inferiore ai 50 anni). Sassaiole e insulti erano partiti giovedì sera anche nel campo profughi di Qalandya, dove due ragazzi sono rimasti uccisi. In totale sono cinque i morti che si contano in Cisgiordania, nell’ambito di quella che molti temono possa essere l’inizio di una terza Intifada.