Caccia all’uomo nel Sinai, i trafficanti di uomini e di organi cercano un testimone oculare scappato dagli orrori del deserto di Dio. I predoni beduini agli ordini di Yasser Abu Simya di Rafah, nel distretto del nord, a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza, hanno messo una taglia di 50 mila dollari sulla testa di Solomon W, 25 anni, profugo eritreo rapito fuori dal campo profughi sudanese dell’Onu di Shagarab dai trafficanti di uomini Rashaida nello scorso dicembre e rivenduto a una gang appartenente alla tribù Ramailat. Dopo aver assistito durante un mese e mezzo di prigionia a omicidi, torture, stupri, e aver visto un sacchetto contenente organi umani pronti per il mercato nero, è riuscito a fuggire e a rifugiarsi in una moschea. Ora si trova nelle mani dello sceicco Mohamed, appartenente a una cellula salafita, fazione nemica dei trafficanti di organi, che lo ha nascosto. La sua sorte è appesa a un filo.Raggiunto telefonicamente, lo sceicco ci dice che la sua fede gli vieta di consegnare il ragazzo agli aguzzini.«Dio me lo ha mandato – afferma il capo salafita – e io non lo darò ai suoi rapitori né sono disposto a consegnarlo alla polizia. Lo darò solo ai suoi fratelli eritrei o a chi può garantirmi che lo manderà dove lui desidera andare, in uno stato occidentale».Chiediamo all’autorità tribale beduina perché non lo scorta fino alla Striscia di Gaza.«Perché il confine è il posto più pericoloso» è la risposta categorica.Tenuto conto che il governo vieta ai funzionari dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite di uscire dal Cairo, la soluzione della vicenda appare complicata. Si teme una sortita della banda, o che qualcuno dei salafiti ceda alla tentazione dei 50 mila dollari e consegni Solomon. Ma perché i banditi lo cercano con tanta determinazione? Lo sceicco accetta di farci parlare al telefono con l’ostaggio per farcelo spiegare. Gli chiediamo anzitutto di raccontarci del suo sequestro.«Insieme a 27 compagni, tra cui quattro ragazze e una donna con un bambino di pochi anni, tutti eritrei rapiti in Sudan dai Rashaida, siamo stati condotti a Rafah, divisi in tre gruppi e venduti ad altri predoni. Il mio gruppo è rimasto nelle mani del capo. Eravamo in cinque, ci hanno incatenati. Qui è cominciato l’orrore».Solomon fatica a proseguire.«Ho visto violenze terribili sulle donne, non le posso riferire. La ragazza vicino a me era incinta e le hanno procurato un aborto. Ci torturavano di continuo con botte e scariche elettriche per farci chiedere il riscatto».Ma Solomon e quattro compagni di sventura, tra cui la ragazza, non hanno alle spalle famiglie che possano pagare. Gli altri quattro vengono uccisi uno ad uno con le violenze e le torture. Tre di loro, compresa la ragazza, sono probabilmente stati gettati nel deserto e i cadaveri sono giunti alla camera mortuaria dell’ospedale di El Arish, ad ovest, non più tardi di 10 giorni fa, come confermatoci dal personale ospedaliero.Solomon è stato risparmiato dalla spietata gang per portare l’acqua ad altri 125 prigionieri eritrei, sudanesi ed etiopi tenuti incatenati nelle case e nelle stalle del villaggio di Al Mahdya, alle porte di Rafah. Il testimone sa esattamente dove sono custoditi i prigionieri e sa la sorte che tocca a chi non può pagare.«Pochi giorni fa uno dei carcerieri – rivela – mi ha fatto vedere un sacchetto di plastica contenente organi umani. Se non arriva il riscatto, mi ha detto minaccioso, vi uccidiamo e vi togliamo gli organi, tanto riusciamo a rivenderli subito».L’eritreo aguzza l’ingegno per salvarsi. Di nascosto riesce a rompere le catene ai piedi e scopre una buca scavata da alcuni prigionieri. Così, giovedì notte fugge portando con sé uno dei cellulari utilizzati dai predoni per ricattare i familiari dei profughi. La sua corsa alla cieca tra le case del villaggio viene notata subito dai banditi, i quali lo inseguono sparando. Con la forza della disperazione entra in una moschea. Svegliati dagli spari, i beduini salafiti dello sceicco Mohamed gli danno rifugio. Il giovane si mette subito in contatto con gli attivisti che nel Sinai stanno diffondendo le cronache dall’inferno. Inferno di cui Solomon è testimone in presa diretta. I banditi vogliono farlo tacere per sempre, perché la sua voce è l’ennesima conferma di quanto diversi media, tra cui
Avvenire, stanno denunciando da 15 mesi nell’indifferenza delle autorità nazionali e internazionali.«Sono nel villaggio di Al Mahdya – grida Solomon tra le lacrime – in un appartamento dal quale vedo le case dove sono prigionieri i miei compagni. Salvatemi, vi prego».Ora è in atto una corsa contro il tempo per arrivare prima degli spietati banditi che spadroneggiano in questa terra di nessuno.