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REPORTAGE. I Fratelli in piazza per il Venerdì della resistenza «Non c'è rivoluzione senza sangue»

Giorgio Ferrari venerdì 12 luglio 2013
Un militante salafita, la lunga barba che gli copre il petto, sventola una bandiera nera mentre i suoi compagni spingono nel vuoto due giovani manifestanti da una torretta a sette metri di altezza a Sidi Gaber, popoloso sobborgo a nord di Alessandria. Il filmato (sembra davvero autentico) di quella vera e propria esecuzione gira da molte ore come scheggia impazzita su Internet.Militanti di Hamas sciamano da Gaza in armi per unirsi ai partigiani di Mohammed Morsi, nel Sinai una bambina di 5 anni è rimasta uccisa nell’attentato a un generale. Nella clinica da campo dei Fratelli musulmani ricavata all’interno della moschea di Rabaa el-Adaweya nel quartiere di Nasr City al Cairo si respira a distanza di giorni l’orrore per quei corpi massacrati lunedì scorso dai proiettili calibro 9 parabellum e 7.65 della polizia e dell’esercito. Vengono in mente le parole di Ala al-Aswani, il più conosciuto scrittore egiziano, autore di “Palazzo Yacoubian” e voce critica del regime di Mubarak prima e di quello di Morsi poi mentre racconta la rivoluzione di Piazza Tahrir del 2011: «I cecchini hanno cominciato a sparare. Erano sul tetto del ministero dell’Interno, usavano fucili di precisione. Nel giro di mezz’ora due ragazzi vicino a me sono stati colpiti e sono caduti a terra. La cosa sorprendente è che i manifestanti non sono scappati...». Quanto vale la vita umana nell’Egitto che brucia? Quale prezzo sono disposti a pagare gli egiziani di ogni colore e appartenenza per le proprie convinzioni?«Inutile nascondersi dietro a un’illusione: nella manifestazione di domani vedo il rischio di nuova violenza, di altro sangue. Non c’è mai stata una “thawra”, una rivoluzione, senza sangue». Ibrahim Isham è un medico, un otorino che presta servizio volontario. «La Fratellanza musulmana – dice – farà una manifestazione pacifica». Ai venerdì di preghiera date abitualmente un nome, «della collera», «del risentimento», questa volta che nome avrà? «Sarà il venerdì della resistenza».Nel grande accampamento di Rabaa el-Adaweya il sole crudele martella il capo. A migliaia gli uomini si assiepano nelle tende. Donne in “hijab” che lascia scoperto il volto, donne in “niqab”, l’abito integrale nero da cui lumeggiano soltanto occhi senza fondo scandiscono litanie derisorie («Al-Sissi chi? Abbiamo affrontato cose più grosse!») all’indirizzo di Abdul Fatah al-Sissi, il comandante supremo di quella casta militare che tiene in pugno il Paese e promette una transizione verso una democrazia partecipata. Un uomo mostra la suola delle scarpe: «Al-Sissi è sotto qui», rivelando un’immagine del generale che si consuma passo dopo passo. Sono giorni di ramadan, nessuno di loro toccherà cibo e acqua fino al calare delle tenebre, solo spruzzi salvifici per bagnarsi il viso, i capelli, le mani, in attesa che al tramonto una cornucopia di datteri, dolci al miele e di pane fragrante passi da una bocca all’altra. «Tu sai chi era Khaled Said?», mi chiede Ahmed el-Shafiey, attivista dei Fratelli musulmani, uno dei pochissimi che parla inglese. Said è famoso anche da noi, dico. È quel ragazzo ucciso dalla polizia ad Alessandria d’Egitto... «Khaled è il simbolo di quello che non deve succedere mai più. Non deve mai più accadere che due poliziotti possano entrare in un caffè, picchiare brutalmente un ragazzo che non aveva fatto assolutamente nulla, portarlo in un vicolo e fracassargli il cranio. Questo era l’Egitto di Hosni Mubarak, un Paese dominato dalla paura. Oggi noi gridiamo: “Kollena Khaled”, siamo tutti Khaled». La violenza, dico. Siamo sicuri che i Fratelli musulmani non ne facciano uso? Si parla di volontari armati, di siriani, di Hamas che vengono a darvi manforte, di attentati nel Sinai, di uccisione di cristiani un po’ dovunque, lo stesso “murshid” Mohammed Badie (la Guida suprema colpita da mandato di arresto di cui si sono perse le tracce e che forse proprio qui nella tendopoli sconfinata di Rabaa el-Adaweya si nasconde) ha incitato voi della Fratellanza alla rivolta. Ahmed sorride, di un sorriso educato. «Essere pacifici non significa non sapersi difendere...». Una nota ufficiale del fratelli Musulmani recita: «Continueremo la nostra resistenza pacifica al colpo di Stato militare contro la legittimità costituzionale». Uno dei leader del movimento, Essam el-Erian, aggiunge: «Il popolo ripristinerà le sue libertà e la dignità attraverso sit-in pacifici in piazza, dimostrazioni e proteste. Gli egiziani debbono smetterla di trascinare il Paese nella violenza ed evitare di cadere nel circolo vizioso della violenza e della contro-violenza». Facile a dirsi. Oggi nelle piazze si capirà se davvero la violenza è inevitabile e necessaria. O se alimentarla fa parte dell’eterno gioco del potere.