Esclusivo. Un documento Onu accusa Israele: «Bombe al fosforo sul Libano»
Una delle bombe al fosforo lanciate sul Libano
Quando un odore violento ha invaso le campagne di Dayr Amis, tutti hanno capito che non era “toum”, l’aglio per una delle salse libanesi. Pochi minuti dopo c’era chi correva all’ospedale e chi non aveva più fiato neanche per chiedere aiuto. Erano le esalazioni delle bombe al fosforo bianco, vietate dalle Convezioni Onu (Ccw) a salvaguardia dei civili. Ora c’è la conferma di Unifil, la missione Onu in Libano. «Abbiamo osservato colpi di artiglieria in cui sono state utilizzate munizioni al fosforo bianco in almeno tre occasioni: il 3 marzo vicino a Dayr Amis (Settore Ovest), il 3 aprile vicino ad Ayta al-Sha’b (Settore Ovest) e il 6 giugno vicino ad Arab al-Luwayzah (Settore Est)». Il Consiglio di sicurezza ha ricevuto il 12 luglio un dettagliato report di 26 pagine. Basta inerpicarsi sulle colline senza più vegetazione che dal Libano guardano alla verde pianura israeliana per capire come “fare terra bruciata” non sia solo un modo di dire.
L’avamposto italiano Unp 1-31 è la prima linea della forza di interposizione Onu. Sotto al fuoco incrociato, con regole d’ingaggio ferree che impediscono di premere il grilletto se non si è attaccati direttamente, l’arma in più si chiama “nervi saldi”. Gli alpini della Taurinense da queste parti sono un esempio. Quando i blindati attraversano i villaggi, i bambini salutano. E, quando il tiro incrociato si fa duro, non si nascondono e all’occorrenza si fanno vedere con i loro Lince bianchi, scoraggiando Israele ed Hezbollah dal continuare a darsele. Il colonnello Bruno Vio, portavoce del contingente italiano, è un catanese di poche parole e con la penna scura sull’elmetto azzurro dei “caschi blu”. Il tricolore sulla divisa è sempre bene in vista. Gente con alle spalle l’Afghanistan, l’Iraq, le missioni in Africa e insomma posti dove la guerra si fa per davvero. Nessuno meglio di loro può dire quanto invece occorra rischiare anche l’impossibile perché da una parte e dall’altra le armi tacciano. Vo ci guida con altri sette uomini sulla linea avanzata fin dentro la “Blue Line”, la linea di demarcazione che dovrebbe tenere a distanza le armi contrapposte. Ci si muove per esperienza e con la guida dei satelliti militari.
Il documento Onu sull’uso del fosforo bianco da parte di Israele - .
Il gps non funziona. Le azioni di disturbo israeliane, finalizzate a ostacolare i combattenti libanesi, mandano in tilt i navigatori elettronici e nel Paese applicazioni come “Google maps” non servono quasi a niente. Sui nostri telefoni veniamo localizzati all’interno dell’aeroporto di Beirut, 100 chilometri più a nord della posizione attuale. I due blindati si arrampicano sulla dorsale che dalle bianche scogliere del Libano meridionale si inerpica fin sui monti coperti da vaste chiazze scure. Ovunque l’indicazione di campi minati e aree dove gli ordigni inesplosi si spostano seguendo le periodiche piccole frane sui versanti più scoscesi.
Non è una buona idea fermarsi e scendere lontano dalle basi Unifil. Il 30 marzo quattro osservatori Onu di “Untso”, la missione di supervisione della tregua, sono rimasti feriti in un incidente su cui Unifil ha aperto una indagine. «Le forze di difesa israeliane hanno rilasciato quotidianamente dichiarazioni pubbliche sulle loro operazioni – si legge nel report consegnato al Palazzo di Vetro nei giorni scorsi –, contro “terroristi”, “edifici militari” o “posizioni militari” di Hezbollah, così come contro edifici residenziali presumibilmente occupati da membri di Hezbollah». Ma poi il fosforo bianco è stato lanciato sull’intera fascia di confine, dalle Alture del Golan agli abitati che affacciano sul mare. Neanche i villaggi cristiani vengono graziati, per quanto alcuni di essi siano riusciti a trovare un accordo con i miliziani: Hezbollah può transitare dai piccoli abitati a patto di non scagliare attacchi da quei borghi con i campanili ancora tutti interi, per scongiurare la risposta di Israele sulle zone di lancio dal territorio libanese. «Sono patti non scritti e fino ad ora sono stati rispettati – assicurano fonti sul posto che chiedono di non essere citate per timore di ritorsioni – ma, poi, periodicamente i jet israeliani ci colpiscono lo stesso». Centinaia di sfollati si sono spostati a Tiro, la città portuale più al riparo dai colpi intenzionali. E sul lato israeliano, dove Hezbollah ha messo nel mirino insediamenti e kibbutz, si contano almeno 80mila sfollati.
Occhio per occhio verso un’escalation che a parole nessuno vuole ma che si fa fatica a disinnescare. «Cessare il fuoco e attuare la Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, che è l’unico modo per garantire la pace e la stabilità, nonché una soluzione a lungo termine del conflitto». Questo va ripetendo Andrea Tenenti, l’italiano a capo delle comunicazioni ufficiali di Unifil, che tenta di far rispettare la “Risoluzione 1701” che aveva assicurato più di 17 anni di relativa stabilità grazie all’impegno delle parti. Di recente, però, «è stata messa in discussione dalla mancanza di un impegno concreto da parte di Israele e del Libano per la sua piena attuazione, ma rimane il quadro più efficace per affrontare la situazione attuale e lavorare per una soluzione a lungo termine del conflitto», insiste Tenenti. La base italiana “Unp 1-31” dista meno di 30 metri dalla torretta israeliana comandata da remoto. Sotto alla bandiera con la Stella di David i visori registrano i movimenti nell’area e quelli degli uomini di Unifil. La pressione è costante. Gli alpini parlano sempre a bassa voce. Ogni rumore insolito può significare qualcosa. La turnazione nella posizione “131” è stata ridotta a 45 giorni. Il caldo infernale, con addosso le protezioni balistiche e le armi pronte all’uso, sono niente davanti alla costante minaccia degli attacchi, che richiedono uomini sempre allerta e mai in calo di forma fisica e mentale. All’occorrenza consegnano aiuti umanitari, scortano medici, attrezzano luoghi ludici per strappare un sorriso ai bambini. Ma spesso si corre nei bunker dove è stata allestita una sala operazioni per non fermare la missione neanche quando la terra trema e prende fuoco.
Aree recintate in cui è stata rilevato il fosforo - .
Poco prima del nostro arrivo una squadriglia di caccia israeliani attraversa lo spazio aereo a bassa quota superando la barriera del suono sopra le città meridionali. Il “bang sonico” terrorizza i residenti e scoperchia alcune case. Sul terreno fotografiamo i resti di ordigni israeliani lanciati appena fuori dalla muraglia fatta costruire sul confine allo scopo di impedire le incursioni via terra dei combattenti Hezbollah. Gli incendi, attizzati con fumogeni, idrocarburi e di tanto in tanto il fosforo bianco, hanno lo scopo di azzerare la vegetazione e sottrarre a Hezbollah spazi per mimetizzarsi. Le ustioni possono uccidere, e hanno la conseguenza di inquinare la terra, che sarà incoltivabile per decenni, avvelenando uomini e bestie che la abitano. «Le principali disposizioni della risoluzione Onu, in particolare quelle relative alla sicurezza e alla stabilità e al sostegno all’esercito libanese - spiega Tenenti -, rimangono in vigore e la loro applicazione dipende in larga misura dall’impegno delle due parti». Quanto ai danni causati dagli attacchi israeliani, per il portavoce dell’Unifil è «impossibile valutarne l’entità prima della fine del conflitto», mentre prosegue l’inventario di «case distrutte, decine di migliaia di famiglie sfollate e molti civili sono feriti o uccisi». Da Tel Aviv l’esercito israeliano sostiene di avere eliminato oltre 500 esponenti di Hezbollah a partire dal 7 ottobre scorso, quando l’orribile aggressione di Hamas nel sud di Israele ha innescato un nuovo confronto armato anche sul confine nord con il Libano. Il soldato che di guerre ne ha viste, quello che i commilitoni chiamano “il vecchio”, di battaglie non ne rimpiange neanche una. Ci saluta con una richiesta e un desiderio: «Raccontate quello che succede qui. Il Libano è una polveriera, ma noi non scappiamo, la gente ci vede e si sente più al sicuro». Il desiderio? «Veder finire la guerra, posare il fucile e vedere la gente che si gode la pace».
Non è ancora tempo per silenziare le armi. Da giorni ovunque nei palazzi del potere libanese abbiano ascoltato i timori per un “casus belli” che potesse far detonare una nuova guerra. La strage dei drusi ieri sul Golan è quello che molti temevano. Una minoranza che si considera siriana e non si è mai riconosciuta in Israele, per cui si rifiuta di svolgere il servizio militare. Ma l’attacco di ieri, con scambi di accuse tra Hezbollah e Tel Aviv, potrebbe essere l‘innesco per il momento peggiore di Beirut.