Trump. «Firmerò un nuovo decreto» per fermare i migranti islamici
Donald Trump con il primo ministro giapponese Shinzo Abe suo ospite in Florida (Ansa)
"Per la prima volta gli investigatori statunitensi fanno sapere di aver confermato alcune delle comunicazioni descritte nel dossier di 35 pagine" stilato da un ex agente dell'intelligence britannica, Cristopher Steele, su Donald Trump, in cui si rivelerebbero dettagli compromettenti sul nuovo presidente degli Stati Uniti. Lo rivela la Cnn, citando funzionari dell'intelligence e delle forze di sicurezza Usa. Nel dossier vengono descritte una dozzina di conversazioni tra funzionari russi. Le fonti non confermano quali dei colloqui siano stati intercettati, o i contenuti delle discussioni, ma solo che queste conversazioni sono effettivamente avvenute tra gli stessi individui, negli stessi giorni e negli stessi luoghi citati dal dossier. Queste prove, spiegano ancora le fonti, hanno dato all'intelligence Usa "maggiore fiducia" nella credibilità di alcuni aspetti del dossier, mentre continua l'indagine sulla veridicità dei contenuti. Raggiunto dalla Cnn per un commento, il capo ufficio stampa della Casa Bianca Sean Spicer, ha tagliato corto: "Continuiamo a essere disgustati dalle false notizie della Cnn". Nessun commento invece dalle agenzie di intelligence.
Sconfitto in tribunale, Donald Trump promette di far risorgere il suo bando agli ingressi negli Usa da sette Paesi a maggioranza musulmana con un nuovo decreto sull’immigrazione e con un ricorso alla Corte Suprema. «Continueremo la battaglia legale e vinceremo, e nelle prossime settimane annunceremo altre misure sulla sicurezza – ha detto ieri –. Faremo qualsiasi cosa necessaria per mantenere il Paese sicuro. La sicurezza è uno dei motivi per cui sono qui». Il presidente statunitense ha lasciato intendere che i suoi prossimi provvedimenti, attesi prossima settimana, potrebbero andare oltre e prendere di mira altri aspetti delle leggi sull’immigrazione.
La Casa Bianca dunque non esclude «alcuna mossa» per rispondere alla conferma della sospensione, da parte della Corte federale d’Appello per il Nono Circuito di San Francisco, del decreto che congela l’ingresso negli Usa per i cittadini di sette Paesi e per i rifugiati in generale. La decisione californiana ha permesso ai viaggiatori (richiedenti asilo, lavoratori in viaggio d’affari, studenti, semplici turisti), da Siria, Iran, Iran, Sudan, Somalia, Libia e Yemen di imbarcarsi su aerei diretti negli Usa, dopo la confusione negli aeroporti provocata dall’improvviso stop alle partenze dello scorso 27 gennaio. Per il presidente americano si tratta di una situazione «vergognosa». «Ci vedremo in aula», ha promesso su Twitter il tycoon, perché «in ballo c’è la sicurezza della Nazione!».
In realtà i tre giudici del tribunale di San Francisco hanno basato il loro verdetto unanime proprio sul fatto che «il governo non è riuscito a dimostrare che la sospensione del provvedimento rechi un danno irreparabile». In particolare, hanno scritto nella motivazione della sentenza, l’Amministrazione repubblicana «non è stata in grado di fornire prove sul fatto che immigrati provenienti dai Paesi inclusi nell’ordine abbiano compiuto atti terroristici negli Stati Uniti». Quindi l’affondo finale: «Piuttosto che fornire prove la posizione del governo è che la magistratura non deve revisionare in alcun modo le sue decisioni».
Nonostante la sconfitta, Trump resta convinto che alla fine «vinceremo il caso, molto facilmente», perché si è trattato di una sentenza «politica», ha detto ieri durante la conferenza congiunta con premier giapponese alla Casa Bianca, Shinzo Abe. Più cauto il dipartimento di Giustizia, che non ha ancora annunciato il ricorso alla Corte suprema ma fatto sapere che sta «valutando » le sue «opzioni». Un’esitazione dovuta probabilmente anche all’incompletezza del massimo tribunale costituzionale Usa, che, da mesi senza il nono giudice, rischia di emettere un verdetto di parità, quattro a quattro (conservatori da una parte e liberal dall’altra) che lascerebbe il decreto in sospeso.
È improbabile infatti che il magistrato Neil Gorsuch, scelto da Trump per sostituire il defunto Antonin Scalia alla Corte Suprema, riesca a essere confermato dal Senato e ad insediarsi in tempo per votare su questo caso. Un pronunciamento della Corte suprema potrebbe però essere inevitabile nei prossimi mesi, perché alla causa decisa ieri notte, che era stata avanzata dai due Stati di Washington e Minnesota, se ne sono aggiunte altre 16, promosse fra gli altri da California e New York oltre che da un centinaio di grandi aziende.
La situazione ha suscitato la soddisfazione di Hillary Clinton, che ieri ha esultato, pure su Twitter: «Tre a zero», sottolineando la decisione unanime dei tre giudici, Michelle Friedland, scelta dal presidente Barack Obama, William Canby, scelto dal democratico Jimmy Carter e Richard Clifton nominato dal repubblicano George W. Bush. Il rifiuto di Trump di fare marcia indietro continua a suscitare la preoccupazione dei Paesi colpiti dal bando. Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi, ad esempio, ha chiesto telefonicamente al capo della Casa Bianca di cancellare il proprio Paese dalla lista nera prevista dal suo controverso ordine esecutivo. Trump avrebbe risposto con un invito ad Abadi a recarsi in visita a Washington.