Londra. Finita l’ultima udienza di Julian Assange, i giudici prendono tempo
Stella Assange, al centro, guida la marcia a Londra dei sostentori del marito Julian dall’Alta Corte sullo Strand fino alla residenza del primo ministro, al numero 10 di Downing Street
L’ Alta Corte di Londra ha preso tempo. La sentenza definitiva sul ricorso contro l’estradizione negli Stati Uniti di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks che l’amministrazione americana vuole processare in casa per diffusione illecita di documenti riservati, era attesa ieri al termine della seconda e ultima udienza del processo. I giudici titolari del caso, Victoria Sharp e Jeremy Johnson, hanno però deciso di «rimandarla».
Non è ancora chiaro quando il verdetto sull’ammissibilità del ricorso verrà comunicato. Secondo alcune fonti, tuttavia, non arriverà prima del 5 marzo. Entro quel termine le parti potranno depositare nuovi documenti a supporto delle rispettive istanze. La parola d’ordine, dunque, è ancora cautela. Eppure sono quasi quindici anni che Washington dà la caccia ad Assange. Il giornalista australiano, 52 anni, famoso per aver pubblicato tra il 2010 e il 2011 migliaia di file “top secret” facendo conoscere al mondo gli abusi commessi dagli americani in Iraq e Afghanistan, è accusato di aver violato l’Espionage Act, un reato che contempla una condanna fino a 175 anni di detenzione. Dopo sette anni di asilo nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, confinato in un piccolo appartamento senza mai uscire, fu arrestato dalla polizia britannica l’11 aprile 2019.
Da allora è detenuto nel carcere di Belmarsh, a sudest della capitale, in regime di semi-isolamento. L’ordine che lo consegna agli Stati Uniti è stato firmato nel 2022 dall’allora ministro degli Interni Priti Patel, ma poi contestato a suon di ricorsi dai suoi legali.
Il caso è tanto intricato quanto delicato. Assange, da qualcuno additato come un hacker senza scrupoli, in questi anni è diventato il simbolo della libertà di stampa nel mondo. Centinaia sono i manifestanti arrivati a Londra in questi ultimi due giorni, molti persino dall’estero, per gridare il «no» all’estradizione e il «giù le mani» dal giornalismo.
Ieri, Stella Morris, la moglie del “detenuto speciale”, è salita su un palchetto allestito all’ingresso del palazzo di giustizia per invitarli a rimanere al suo fianco e a marciare dallo Strand, dove si trova la Corte, verso Downing Street per sollecitare l’attenzione sul caso del primo ministro Rishi Sunak.
Per Washington la partita non riguarda la libertà di stampa e, soprattutto, non è politica come invece sostiene la difesa. Clair Dobbin, l’avvocato che ha rappresentato l’amministrazione a stelle e strisce alla due giorni di udienze finali, ha ribadito che i 17 capi di accusa che pendono sulla testa di Assange sono basate «sullo stato di diritto». A suo dire, il fondatore di WikiLeaks ha semplicemente infranto la legge esponendo il Paese, e gli informatori citati nei dossier pubblicati «indiscriminatamente» senza editing, a un «grave» rischio sicurezza. Se all’origine del mandato di arresto per spionaggio e intrusione informatica ci fossero ragioni politiche, ha argomentato ancora il legale, Assange non sarebbe stato nel mirino di amministrazioni di diverso colore.
Bisogna aspettare ancora qualche giorno per capire se c’è il reporter australiano, assente in aula perché «non sta bene», può sperare in un nuovo ciclo di arringhe di appello. Se i giudici gli negheranno questa possibilità potrebbe essere caricato su un volo per Washington in 28 giorni. A quel punto l’estradizione potrebbe essere sospesa solo da un ordine temporaneo della Corte Europea dei Diritti Umani. Motivato dalla prospettiva che in una prigione d’Oltreoceano la vita del giornalista sarebbe a rischio.
Si è affievolita, ma non fino a scomparire, l’ipotesi che Assange possa essere consegnato alle autorità australiane. Canberra, che pure è alleata degli Stati Uniti, è dopo tutto il suo Paese di origine. La scorsa settimana il Parlamento locale ha approvato una mozione per chiederne il rimpatrio che Oltremanica è stata accolta con gelo. Il premier australiano, il laburista Anthony Albanese, ha chiarito che non è solito interferire nei processi legali di altri Paesi ma che questo caso che divide l’opinione pubblica mondiale «non può andare avanti all’infinito».