L'analisi. Fino a che punto Biden può tirare l'elastico?
«Things could go crazy quickly»: tutto può impazzire maledettamente in fretta. Parola di Joe Biden, che sollecita il personale americano ad abbandonare rapidamente Kiev in attesa dell'invasione russa.
Ma dove vuole arrivare Sleepy Joe? La malevola e sarcastica domanda sibila nei corridoi del potere a Washington e si diffonde nei gangli sensibili della nazione, dalla Federal Reserve al Pentagono, dal Dipartimento di Stato alla Corte Suprema, dal Campidoglio al J.Edgar Hoover Building, fino a lambire Wall Street, l'altro sensibilissimo termometro che misura lo stato di salute della nazione.
Il quesito è tutt'altro che futile: fino a che punto il presidente Biden può spingersi in questa autentica ordalia che sembra offrire al mondo la certezza di una guerra guerreggiata con la Russia? Fino a quando cioè quel martellante e quotidiano allarme diffuso dalla Casa Bianca, dal segretario di Stato Blinken e dalle molte agenzie di intelligence (un allarme che a Kiev invece non c'è) non sveglierà davvero il dio degli eserciti? Il che ci riporta al primo imbarazzante quesito: ma Biden ce l'ha un piano per fronteggiare il braccio di ferro con Putin sull'Ucraina oppure no?
A un anno dalla sua entrata in carica, la pagella del presidente – che pure sconta errori e circostanze maturate nella precedente amministrazione – non è delle più lusinghiere, nonostante il Pil nazionale sia cresciuto del 7,8%, il reddito disponibile degli americani del 3% e il tasso di disoccupazione sceso dal 6,3 al 3,9%. Pesano sull'amministrazione Biden (ora sotto il 40% dei consensi) la voragine dell'inflazione che si arrampica oltre quota 7% e i mancati risultati nei programmi di riforma del welfare e di lotta i cambiamenti climatici. Ma soprattutto Biden ha mostrato una catastrofica predisposizione a fallire i principali obbiettivi di politica internazionale. A cominciare dal precipitoso ritiro dall'Afghanistan (è di queste ore un rapporto diffuso dal Washington Post secondo il quale numerosi ufficiali dell'esercito hanno fortemente criticato la gestione dell'operazione e la sottovalutazione della reale minaccia dei taleban), seguito dall'ondivaga politica nei confronti della Cina, vista come competitore primario ma di fatto facilitata nell'abbraccio con la Russia, venendo meno così alla regola aurea che impone sempre di dividere gli avversari, non di unirli. E mentre irritava i francesi siglando con Australia e Regno Unito il patto di sicurezza Aukus (una mega commessa di sottomarini nucleari britannici in funzione anticinese) Biden è riuscito nell'arduo compito di avvicinare due entità storicamente diffidenti come russi e cinesi, dapprima subendo di fatto l'agenda russo-cinese per la ripresa dei colloqui sul nucleare con l'Iran, e successivamente coinvolgendo la Nato e l'Europa in un gioco – quello ucraino – che come premio unico sembra avere la riabilitazione di Mosca al rango di grande potenza mondiale. Merito anche di Barack Obama, che dieci anni prima aveva declassato Mosca a potenza regionale, incoraggiandone come si è visto lo spirito di rivalsa. E a proposito di Obama, di cui Biden è stato due volte vicepresidente, è opportuno ricordare lo scivolone geopolitico in cui incorse quando proclamò come invalicabile linea rossa l'impiego di armi chimiche da parte della Siria, salvo poi rimangiarsi il proposito. Un vizio dei democratici, si direbbe. E mentre sale la temperatura dell'allarme, la domanda originaria permane: ma Joe Biden ha davvero un piano per uscire dal pantano ucraino?