«Non ci facciamo illusioni – ha detto dopo un’estenuante maratona notturna Angela Merkel –: rimane molto lavoro da fare. Ma c’è comunque la possibilità reale di cambiare la situazione in meglio».
Si chiude nella vaghezza il vertice di Misnk, dove dopo diciassette ore di tensione il quartetto composto dalla cancelliera tedesca, dal presidente francese Hollande, da quello ucraino Poroshenko e dallo zar di tutte le Russie Vladimir Putin ha faticosamente partorito una dichiarazione che di fatto conferma e sostiene gli accordi Minsk dello scorso settembre e stabilisce un cessate il fuoco a partire da domenica.
Sul tavolo rimangono tuttavia insoluti i punti chiave della disputa fra Kiev e i separatisti delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, a cominciare dallo status delle regioni ribelli per finire con il controllo del confine russo–ucraino. A conferma di uno stallo per ora insormontabile lo stesso Poroshenko ha confermato che l’accordo di ieri non prevede né il federalismo della zona separatista (come vorrebbe Putin), né l’autonomia.
La domanda che molti si pongono è in sé allarmante: cosa autorizza pensare che un accordo fotocopia di quello di settembre possa venire rispettato se il medesimo accordo finora è rimasto lettera morta? Sensazione diffisa è che questa sia solo una tappa del complesso risiko che Vladimir Putin sta giocando nel cuore d’Europa, una strategia iniziata con l’annessione della Crimea e proseguita con militarizzazione del Donbass, che punta nel medio periodo ad ottenere la neutralità dell’Ucraina e l’abbandono del proposito di Kiev di aderire alla Nato. Forse domenica le armi taceranno davvero. Ma per quanto?