Analisi. Gli eterni burattini del terrore e la strage di Kerman firmata Daesh
Scene di dolore fuori dell'ospedale di Kerman, in Iran, dopo la strage compiuta dal Daesh
Il “marchio di fabbrica” era proprio quello del Daesh. E dal Daesh è giunta la rivendicazione della strage di Kerman, il luogo in cui si trova la tomba di Qassem Suleimani, comandante della Quds Force (la Brigata santa dei Guardiani della rivoluzione), ucciso a Baghdad da un drone americano il 3 gennaio di quattro anni fa. Una data simbolica, che da quel giorno ha avvolto in un’aura quasi mistica la figura già di per sé leggendaria del grande stratega della destabilizzazione, quanto altrettanto simbolica è oggi la terribile strage di Kerman per l’orgoglio ferito dell’Iran.
«Nell'ambito di una battaglia, con la grazia di Dio Onnipotente, i due fratelli martiri, Omar Al-Muwahid e Saifullah Al-Mujahid, si sono avviati verso un grande raduno di sciiti politeisti vicino alla tomba del loro leader morto, dove hanno fatto esplodere le loro cinture esplosive in mezzo alla folla, provocando l'uccisione e il ferimento di oltre trecento sciiti». Se il tono del messaggio non lascia dubbi sulla sua provenienza (il lessico qaedista-jihadista del Daesh non teme confronti), il suo contenuto anti-sciita lascia invece spazio a molte domande. La prima delle quali è: cui prodest?
A chi può giovare un simile attentato, il peggiore mai avvenuto in Iran dall’epoca dell’ayatollah Khomeini? Chi sta dietro le quinte? Terroristi mercenari? «Lacchè di potenze arroganti», come ha insinuato il capo della magistratura iraniana Gholam-Hossein Mohseni-Ejei? Una faida interna al regime da parte di un’ala oltranzista che vorrebbe un intervento diretto di Teheran contro Israele? Ipotesi per ora indimostrabili. Come inverosimile era un coinvolgimento americano o israeliano (Tel Aviv è usa risolvere i propri regolamenti di conti puntando direttamente al bersaglio prescelto).
Dunque chi? Nella tragica ontologia delle proxy war (le guerre per procura) gli arcipelaghi del radicalismo – i movimenti jihadisti, i gruppi anarco-insurrezionalisti, i fondamentalismi religiosi – rappresentano una comoda agenzia di collocamento da cui pescare mano d’opera da utilizzare per destabilizzare e condizionare società e governi. Sembra oggi lontanissimo quel 4 luglio del 2014, quando dalla moschea di Mosul Abu Bakr al-Baghdadi proclamò la nascita del Daesh, il sedicente Stato islamico che scimmiottava alla lontana il califfato ottomano estintosi nel 1924 per volontà di Kemal Atatürk. Un Califfato che più che una terra promessa era una nozione allegorica, i cui confini geografici erano di continuo ridisegnati dagli eventi e la cui ferocia si assommava al più estremo degli integralismi dei suoi militanti. Ma se i tempi mutavano, i modi e gli esiti rimanevano gli stessi. La memoria corre a quell’attentato del Daesh che nel 2021 inaugurò la reconquista taleban dell’Afghanistan provocando la fuga ignominiosa del presidente Ghani.
Oggigiorno il Daesh è diventato insieme a al-Qaeda un vasto “contenitore prêt-à-porter” dietro cui ci celano interessi e manovratori occulti. Burattinai che muovono una manovalanza sempre disponibile che garantisce risultati sempre uguali: morte e distruzione, leadership che vacillano, fragili intese che si frantumano.
Torniamo quindi al quesito originario: chi ha manovrato i mercenari del Daesh, chi ha tirato i fili di questi eterni burattini del terrore? Risposta: chi aveva interesse a farlo. In molti, dunque. Ma il perimetro, per quanto vasto, non sembra allargarsi oltre i confini del Medio Oriente: Teheran, Baghdad, Damasco, Riad, lo Yemen, il Golfo e le sue petro-monarchie, la Turchia (volendo). Tutti, come in un celebratissimo romanzo di Agatha Christie, avevano almeno un motivo per destabilizzare l’Iran. Tiriamo a indovinare. Ben sapendo che in mancanza della sagacia di Hercule Poirot l’assassino rimarrà impunito.