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TENSIONE AL CAIRO. L'esodo dei cristiani ferita aperta dell'Egitto

Claudio Monici sabato 22 dicembre 2012
Il «Dolce luogo», è la traduzione dall’arabo del nome di questa località sulla sponda sinistra del Nilo, trenta chilometri a sud dal Cairo. C’erano ville meravigliose. Sultani e pasha, l’ultimo re Faruk, vi si recavano per rinfrancarsi nelle cure termali, all’ombra dei palmizi. Oggi, Helwan è solo un disastro. Spiantate le residenze reali e quelle coloniali con i bulldozer, come funghi sono stati innalzati palazzoni popolari di dieci piani. Colline di cemento armato, soffocate da una cornice di immondizia e degrado che avanza.Helwan è quell’enorme cementificio che, alla sua periferia, dell’aria ne fa un disastro. Polvere che tutto ricopre e sbianca, che con il respiro intonaca pure i polmoni. Helwan è una città satellite di quella tentacolare «Grande Cairo» che si espande come una spugna, nutrendosi di chilometri di spazi, trascinandosi dietro la sua miseria e la sua caotica urbanizzazione che schiamazza in una anarchia di clacson. «Quanta gente vive a Helwan?». Sorride, padre Alberto Modesti, missionario comboniano bresciano, con alle spalle 25 anni di missione in nord Sudan, dieci in Sud Sudan, e adesso da nove in Egitto.«Nessuno è in grado di dirlo con certezza. In Egitto, la migrazione dalle zone rurali verso luoghi come Helwan è inarrestabile. A spanne, ma credo di non sbagliare, non meno di un milione e mezzo, due milioni di persone, novanta per cento musulmani. Certo che so, invece, quanti cristiani cattolici vivono qui: sessanta famiglie. Circa 300 individui: copti cattolici, armeni, melchiti, maroniti, caldei, siro-cattolici».Helwan è una roccaforte del governo del presidente Morsi, forti sono i Fratelli musulmani e gli alleati salafiti. Ma rilevante è anche la presenza di quell’Egitto con un soffio islamico decisamente più moderato, con una visione più attuale e che si è espresso in maniera critica votando il suo no nel referendum per la nuova Costituzione: «Un islam capace di vivere la religione insieme al progresso e che ha trovato il suo modo di esplicitarsi sui banchi delle nostre scuole: una peculiarità cattolica, non esistono altri soggetti che lo fanno, quella di investire il futuro di un Paese nell’istruzione scolastica».

 

«A Helwan, la relazione tra islamici e cristiani trova il suo respiro nel nostro istituto scolastico della “Sacra famiglia”. Nella scuola maschile, che li accompagna dall’asilo fino al liceo, ci studiano 1500 studenti – racconta padre Modesti –. In quella delle ragazze, dall’asilo alle medie, abbiamo 900 giovani iscritte. La percentuale islamica prevale all’ottanta per cento. I professori sono metà cristiani e metà musulmani. Io uso il termine “respiro”, perché è il nostro intendimento originario quello di fare crescere la persona rispettando ciò che essa rappresenta. Rispettarsi per conoscersi, nella diversità».

In tutto l’Egitto musulmano, sono 186 le scuole cattoliche ed ognuna registra una media di mille studenti iscritti.«L’islam non è solo fanatismo. Stiamo attenti a inquadrarlo solo sotto questa bandiera. Perché non è così. È molto più tollerante di quanto possiamo pensare e vedere – osserva il comboniano Modesti –. C’è un islam che sa convivere, specie quando è distante dalle tensioni dei grandi centri urbani. Però l’ondata di islamismo è presente. E piano piano sta intossicando l’atmosfera di convivenza serena e pacifica».L’Egitto, dopo la Cina, è il secondo Paese al mondo con il maggiore numero di richieste di visti e domande di asilo politico rivolte agli Stati Uniti, fa notare una fonte diplomatica al Cairo: «Non è solo decidere di cercare una vita migliore all’estero, ma anche l’espressione della paura dei cristiani del Medio Oriente, esplosa con la crisi irachena ed ora accentuata da quella siriana».«L’esodo è una ferita aperta. La metà delle nostre famiglie cattoliche hanno parenti in Australia, Stati Uniti, Canada. E il desiderio dei nostri giovani è quello di partire. Non vogliono sentirsi dei secondi. Degli esclusi dalla vita, dal lavoro, dalla politica del loro Paese perché appartenenti a una minoranza – sottolinea padre Sobhy Basili, direttore della scuola maschile –. L’altra sera sono andato a trovare l’amico Talaat. Mi ha raccontato che il figlio si è trasferito a Palermo, dopo che si è sposato con una ragazza italiana conosciuta attraverso Internet. A marzo prossimo la figlia di Talaat, con il marito e i due figli, parte definitivamente per l’America. Anche dei miei insegnanti un giorno mi hanno detto: “Direttore, ci perdoni, ma noi andiamo in America”. Ognuno parte con un suo perché nel cuore: ma paura del futuro e crisi economia, sono i motivi che prevalgono».Qualche chilometro prima di arrivare a Helwan s’incontra il monastero copto ortodosso dedicato alla Vergine Maria. La tradizione vuole che proprio qui la Sacra famiglia con il Bambino abbiano trovato rifugio, durante un tappa dei tre anni e sei mesi di cammino egiziano per sfuggire a Erode il grande.Adesso è «Milad», Natale. E il Bambino sta per nascere anche nella musulmana Helwan, nella piccola comunità delle sessanta famiglie cattoliche, che diventa più «numerosa» se aggiungiamo i tre comboniani, l’italiano padre Modesti, un giovanissimo messicano, e l’egiziano Basili, e poi le dodici suore comboniane: due egiziane, una eritrea, una brasiliana e le altre tutte italiane. Anche in Egitto, da tempo oramai, le chiese sono considerate «obiettivi sensibili», difese da poliziotti armati. La Messa di mezzanotte è un ricordo dei tempi lontani. E il rito lo si celebra presto. I copti cristiani nei quarantatré giorni che precedono il Natale, digiunano di carne, pesce e uova. Non si ci sono tanti regali da mettere sotto l’albero di Natale, spesso non c’è neppure quello. Il Natale è uno scambio di auguri. Un pranzo con i parenti. Un vestitino nuovo o un paio di scarpe per i bambini. Non si conosce la parola «spreco» qui, dove ogni giorno che trascorre è una sfida con i sacrifici.«Molto sta cambiando anche da noi. Ma resta integra la bellezza del nostro Natale, quando possiamo osservare che ancora c’è gente semplice che si prepara tanto tempo prima del Santo giorno. Trascorrendo ore in preghiera e meditazione – conclude padre Modesti –. Le chiese si riempiono in maniera splendida. La la fede sembra di toccarla con mano. Sono feste che si sentono con il cuore di una presenza semplice e profonda. E quando per strada ti senti augurare: “Baraka al Masih alaik wa ala usratak”, “che la benedizione di Gesù scenda su di te”, senti che l’augurio ti viene rivolto con l’amore di Gesù salvatore».