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SENZA PATRIA NÉ DIRITTI. Eritrei: ecco l'andata e il ritorno dall'inferno

Paolo Lambruschi giovedì 21 aprile 2011
Erano 250 eritrei colpevoli di inseguire un sogno di libertà. Fuggivano da un regime oppressivo, volevano raggiungere Israele. Invece sono stati rapiti per mesi nel Sinai da una rete criminale composta da clan di beduini Rashaida. Circa 85 di loro fuggivano dalla Libia, "chiusa" ai migranti dopo il trattato di amicizia con l’Italia, gli altri provenivano dal Sudan. La loro odissea è iniziata il 23 novembre, per la maggior parte è terminata tra Natale e febbraio con il pagamento del riscatto variabile dagli 8 ai 10mila dollari. Abbiamo seguito la loro tragedia – grazie anche alle denunce del sacerdote eritreo Mosè Zerai – con una lunga campagna giornalistica tra novembre e dicembre per rompere il silenzio di media e governi occidentali su questa nuova rotta del traffico di esseri umani.Ora possiamo rivelarlo, la libertà di alcune donne povere in stato interessante è stata pagata anche da alcuni nostri lettori sdegnati dall’orrore, che non è stato fermato neppure dopo una risoluzione del Parlamento europeo a metà dicembre che sollecitava l’intervento del Cairo. Solo la società civile si è mossa. Ma il Sinai è terra di nessuno, anche dopo le rivolte, e l’industria dei sequestri resta fiorente. Dove sono, come stanno gli eritrei rapiti in autunno e liberati tre mesi fa? Siamo andati a Tel Aviv a scoprirlo e, per la prima volta, i profughi raccontano un’odissea infinita.Zion tiene gli occhi bassi mentre entra nella sede di Ardc, associazione israeliana che aiuta i richiedenti asilo in Israele. È eritrea e sul volto porta i segni di un viaggio di andata e ritorno all’inferno. Ora vive in un limbo con poche prospettive per lei e la vita che porta in grembo. Ha 28 anni, è incinta di sette mesi. Indossa una tuta da ginnastica larga e porta il guardaroba in una borsa della spesa. Li hanno rilasciati a gennaio, dopo tre mesi di sequestro. «Ringrazio i benefattori italiani, devo loro la vita. La mia famiglia ha venduto tutto, ma non riusciva a coprire tutto il riscatto. Per me e mio marito sono stati pagati 11mila dollari a testa». Dopo la liberazione la coppia è stata un mese nel campo profughi israeliano di Saharonim, quindi è arrivata a Tel Aviv. Hanno un permesso provvisorio, ma Israele non ha una legge sull’asilo e i profughi non trovano lavoro facilmente. Dividono una stanza con altre sei persone e fanno letteralmente la fame. Chiedo della loro odissea.«Siamo arrivati in Libia nel 2009, ma non potevano più restare: rischiavamo di finire in galera come clandestini. Non era più possibile partire per l’Italia a causa dei respingimenti. Ci hanno arrestato e abbiamo dovuto pagare per uscire. Allora ad ottobre 2010 un eritreo di nome John ci ha detto che ci avrebbe fatto arrivare in Israele con 2.500 dollari. Siamo partiti in 49, nel Sinai ci siamo uniti a un altro gruppo proveniente dalla Libia. Eravamo 85 in tutto. I beduini ci hanno tenuti nel deserto una settimana senza cibo. Poi si sono fatti consegnare soldi, cellulari, ci hanno messo delle coperte addosso e spinti dentro alcune caverne dove c’erano altri prigionieri, in tutto eravamo 250. Lì è cominciato il calvario».Zion scoppia a piangere al ricordo della prigionia. «Ci tenevano incatenati, ci maltrattavano. Ci davano da mangiare solo pane e pomodori. Soffrivamo di diarrea e dovevamo fare i bisogni davanti a tutti. Non ci hanno mai fatto lavare né cambiare, bevevamo acqua sporca o le urine. Ci picchiavano con spranghe, poi chiamavano i parenti per sollecitare i pagamenti».Conferma l’omicidio di sei eritrei. «A fine novembre hanno cercato di scappare. I beduini ne hanno uccisi quattro a fucilate, due li hanno ammazzati a bastonate. Si chiamavano John e Goitom, avevano 25 anni».Durante il giorno gli uomini incatenati venivano impiegati come schiavi per costruire case. Alle donne andava peggio. «Eravamo nove e ci facevano pulire. Cinque le hanno stuprate davanti a tutti, io sono stata risparmiata perché ero malata. Eravamo prigionieri del trafficante Abu Khalid, i beduini avevano complici eritrei».Conferma che oltre a lei, le offerte italiane hanno contribuito a liberare tre eritree in stato di gravidanza.«Una è impazzita per le violenze subite e ha abortito come altre donne stuprate. Le altre due devono partorire. Non abbiamo neppure i soldi per mangiare, ma vogliamo andare fino in fondo sperando in Dio».Al rifugio di Ardc, in un quartiere abitato da migranti africani, vivono in stanzette sovraffollate 20 donne e 25 bambini tra 0 e 16 anni. Trovo M., 22 anni, incinta al sesto mese. L’hanno rapita a ottobre. Era nel gruppo dei 250 sequestrati che abbiamo imparato a conoscere. Lei è stata liberata con il contributo italiano a dicembre.«Sono fuggita da casa in agosto con un gruppo di amici e volevo lavorare in Sudan. I Rashaida mi hanno ingannata dicendomi che mi portavano a Khartoum, invece mi sono trovata nel Sinai dopo un viaggio infernale di una settimana. Ci tenevano stipati nei camion, sotto quintali di verdura e frutta. Alcuni sono morti soffocati. Eravamo prigionieri di Abu Abdel, per me sono stati pagati 8mila dollari».M. sapeva di essere incinta del suo compagno quando era nel Sinai. Nonostante ciò è stata abusata da uno dei rapitori, un egiziano. Quando l’hanno liberata voleva abortire: per ignoranza temeva che il bambino fosse figlio anche dell’aguzzino. Quando medici le hanno spiegato che il padre era il compagno ancora prigioniero, ha scelto di partorire. M. è in miseria, ma, nonostante il dolore, non ha perso la speranza. Come tutti le donne e gli uomini eritrei che ho incontrato, il suo sogno di libertà non è stato spezzato nel Sinai.