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Congo. Kabila resterà sul trono per altri due anni

Fabio Carminati sabato 22 ottobre 2016
Decine di morti, scioperi, proteste e centinaia di arresti. Eppure in Congo poco cambia. Anzi, restano tutti i presupposti perché lo scontro tra l'opposizione e il presidente Joseph Kabila, che non si rassegna a lasciare il potere, continui ancora a lungo. Nei giorni scorsi ha suscitato clamore e ha sollevato forti proteste la notizia dell'accordo tra il leader, succeduto al padre Laurent Désiré nel gennaio del 2001, e una parte dell'opposizione per congelare la situazione, di fatto cercare di superare gli sconti e le vittime e perpetuare un drammatico stallo politico

Entro due anni

Non è stata fissata una data delle elezioni presidenziali e politiche, ma alcune date intermedie per l'avvio del processo elettorale, nel frattempo verrà creato un governo di unione nazionale guidata da un premier (con poteri limitatissimi) dell'opposizione, mentre il 45enne presidente uscente (a cui la Costituzione affida ogni decisione finale) resterà in carica dopo la scadenza del suo mandato, il 19 dicembre, fino all'elezione del nuovo capo dello Stato. Sono questi i punti salienti dell'accordo raggiunto dalla maggioranza presidenziale e da quella parte dell'opposizione che ha partecipato al dialogo nazionale.
L'intesa prevede anche che il 30 ottobre 2017 sia il termine per la presentazione della candidature, mentre le elezioni devono essere organizzate entro i sei mesi successivi, quindi entro aprile 2018.
Una volta che tutte le parti avranno firmato l'accordo, entro 21 giorni verrà formato il governo di unità nazionale, mentre entro un mese si riunirà un comitato di accompagnamento formato da sette componenti della maggioranza, sette dell'opposizione e tre della società civile. Ma il problema nasce proprio qui. E la protesta rischia di degenerare di nuovo in scontri di piazza.
I membri della maggioranza hanno naturalmente sottolineato che il presidente Kabila intende rispettare la Costituzione «dal primo all'ultimo articolo», lasciando intendere che non si presenterà alle elezioni per ottenere un terzo mandato, che è vietato dalla Carta Costituzionale. Il passaggio dalla parole ai fatti è lungo però altri due anni e tante cose possono cambiare.



Senza Tshisekedi

All'accordo raggiunto lunedì scorso a Kinshasanon partecipa comunque “Le Rassemblement”, il gruppo di partiti dell'opposizione che sostengono il candidato Étienne Tshisekedi, mentre i vescovi congolesi avevano abbandonato il dialogo nazionale per «cercare un consenso più ampio», invitando il leader a ripensare la propria posizione. L'impressione comune è che comunque ci si trovi di fronte a un ulteriore “avvitamento" e non epilogo di una lunga crisi istituzionale e a un perpetuarsi sul “trono del Congo” di una dinastia salita al potere con il sangue dopo decenni di altro sangue versato dal dittatore Mobutu.


L'instabilità totale

E in questo contesto le violenze nel Paese non si fermano, soprattutto nelle regioni orientali nelle quali la condizione di guerra di fatto è proseguita senza soluzione di continuità dalla fine del secolo scorso. Producendo vittime, carestie e decine di migliaia di profughi che da anni vengono scacciati da un posto all’altro senza la possibilità di toprnare nelle loro zone di orinìgine nelle quali l’unica regola resta quella di non avere regole. Una denuncia, tra le tante, suscita ulteriori timori. La Cepadho, un'organizzazione congolese per la difesa dei diritti umani, in un comunicato inviato all'Agenzia Fides ricorda che "a inizio ottobre la popolazione della città e del Territorio di Beni ha celebrato il triste anniversario dell'inizio dei massacri dei civili che sono costati la vita di 1.200 persone" da parte del gruppo di ribelli di origine ugandese Adf. "L'Uganda ha sempre brillato per il suo mutismo in questa tragedia" afferma la Cepadho "Tanto più che accanto a somali, keniani, tanzaniani, ruandesi, sudanesi, congolesi, la maggioranza dei terroristi sono di nazionalità ugandese o infiltrati a partire dall'Uganda".


La Cepadho ha lanciato l'allarme "su una nuova probabile ribellione in gestazione a Beni, e teme che la denuncia dell'Uganda nasconda il suo coinvolgimento in questa trama". Nell'area di Goma, capoluogo del Nord Kivu, cresce la preoccupazione della popolazione locale per lo stazionamento dei guerriglieri fedeli al deposto vice presidente sudsudanese Riek Machar, cacciati dal Sud Sudan dopo gli scontri di Juba del luglio scorso. Gli uomini di Machar sono sotto la supervisione della Missione Onu nella Repubblica democratica del Congo (Monusco), ma si teme che questi uomini armati (molti dei quali di nazionalità congolese che si erano recati in Sud Sudan sulla base di legami tribali transfrontalieri con Machar) possano diventare un nuovo elemento di instabilità. Nel Sud Kivu invece a inquietare è la presenza di guerriglieri burundesi. Su un punto, infine, molti esperti concordano: se la crisi del Congo dovesse esplodere, scatenando l'escalation di violenze legate alle rivendicazioni territoriali o di gruppi armati di potere, potrebbe far risprofondare tutta la regione dei Grandi Laghi nel caos che dal genocidio in Ruanda ha ridisegnato la "mappa del potere nel Cuore di tenebra africano".