Mondo

Gran Bretagna. Primi exit poll: la May rischia di perdere la maggioranza assoluta

Giorgio Ferrari, Londra giovedì 8 giugno 2017

Il premier May dopo il voto (Ansa)

314 ai conservatori, 266 al labour party, 34 agli indipendentisti scozzesi, 14 ai lib-dems. Niente all'Ukip. Le prime cifre, il primo exit poll, per quel che possono valere, confermano i timori della vigilia: I tories di Theresa May vincono le elezioni ma perdono quasi una ventina di seggi e con essi la maggioranza assoluta; quella maggioranza per cui la May aveva indetto nuove elezioni proprio per rafforzare il governo in vista del duro negoziato della Brexit con l'Unione Europea.Sulla vericidità degli exit polls nutriamo da sempre gli indispensabili dubbi, ma tanto basta: questa quaterna di cifre assegna una sorta di vittoria morale a Jeremy Corbyn e a fa dire all'ex ministro delle Finanze Osborne: «Questo è un risultato catastofico per Theresa May e per i conservatori». Ed innegabilmente, dopo la catastrofe Brexit provocata da Cameron ora sembra profilarsi - se le previsioni verranno confermate - il secondo letale errore dei tories. In un Paese già profondamente diviso che chiedeva chiarezza e sicurezza


La giornata e i pronostici

Hello!», si era limitata a dire Theresa May facendo il suo ingresso – immancabili le ballerine leopardate – nel seggio di Sonning, nel Berkshire. Più loquace, ma non più di tanto, Jeremy Corbyn, che votava nella scuola elementare di Pakeman, Islington: «È un giorno di democrazia, sono molto orgoglioso della nostra campagna». Si è votato di giovedì, sotto un cielo di piombo, senza i riti, le code e il tempo sospeso cui siamo avvezzi in Italia. Ma si è votato con l’ansia segreta di non sapere bene se affidare il proprio futuro a una premier che in pochi mesi ha commesso troppi errori o a un leader che sta agli antipodi del blairismo e di quel labour vincente e moderno che aveva segnato la svolta del terzo millennio. I pronostici tuttavia davano con sempre maggior certezza un vantaggio decisivo per i tories, uno addirittura – il rilevamento ComRes pubblicato dall’Independent – una maggioranza di 74 seggi per la premier, la più ampia dai tempi di Margaret Thatcher.


Il clima politico e la campagna elettorale

Dietro i numeri, tuttavia, l’umor nero di un Paese diviso e preoccupato, che ha dimenticato la Brexit e le tasse ripiegandosi su se stesso. Melissa Healy trattiene a fatica un lampo di disapprovazione. È appena uscita da una sede di voto di Brixton, quartiere storico di Londra ad alta densità afro-caraibica in cui ancora oggi, nonostante la forte “gentrificazione”, disoccupazione, emarginazione e piccola criminalità si tengono per mano. Ma non è nei confronti del giornalista che manifesta il suo disappunto. «Non ho paura del distacco dall’Europa – dice –, ho paura di quello che potrà fare la signora May. Ho paura di essere fermata per strada, di essere arrestata perché non gli piace la mia faccia...». A Brixton, come a Spitalfields, a Whitechapel, a Brick Lane non tutti ieri sono andati a votare. Asiatici e africani, proverbialmente giovani e troppo spesso ignari del proprio passato preferiscono annegare in uno scetticismo diffuso il proprio scontento. Ma Kenan, quarantacinquenne sudanese, un brandello di memoria ce l’ha. «Quella degli scontri del 1981. Ero un ragazzo, a quell’epoca, il quartiere aveva preso fuoco, c’era una rivolta, si bruciavano le automobili, la polizia passava a setaccio le strade. E soprattutto c’era quel metodo che adottavano gli agenti in borghese: fermare e arrestare un individuo sulla base del solo sospetto che avesse commesso un reato. O più probabilmente perché non era bianco». È tutto vero. Come è vero che lo «stop and search», figlio di una legge del 1824 (detta anche «Sus Law», la legge del sospetto) assomiglia molto ai provvedimenti che Theresa May preannuncia nei confronti del radicalismo islamico. «In pratica puoi fermare e arrestare chiunque – argomenta Kenan, basta che abbia la barba del salafita o un particolare che alla polizia non piace. Il tutto senza necessità di prove».

Usata e periodicamente rimossa per opportunità politica, la Sus Law riemerge fra le pieghe della paura che attanaglia il Regno Unito e sulla quale i due principali candidati hanno condotto la loro battaglia elettorale anche prima degli attentati di sabato a London Bridge. Una vignetta dell’Independent dal titolo «sfoderando l’artiglieria» ritrae May carbonizzata dall’esplosione del cannone che stava maneggiando. A tutti, in primo luogo ai suoi compagni di partito, è apparsa evidente la sua imperizia nella gestione del potere e la scarsa affidabilità quando si tratta di affrontare a muso duro un problema. La sua maldestra campagna (stava perfino perdendo con una gaffe il consenso degli anziani, zoccolo duro dei tories) è stata surclassata da quell’ambientalista astemio e vegetariano di nome Corbyn, il discolo della classe, il “backbencher” che per 35 anni è rimasto seduto nelle retrovie della Camera dei Comuni ma che – esattamente come Bernie Sanders, l’avversario democratico di Hillary Clinton – sa parlare da anziano al cuore dei giovani e, nonostante certi suoi silenzi molto ambigui, perfino accendere speranze.
Fino a quel «Jez we can» (Jez sta per Jeremy), scimmiottato dall’obamiano «Yes we can», con cui i suoi sostenitori (il 71% dei millennials) sognavano il grande sorpasso: nelle ultime 24 ore prima della chiusura degli elenchi sono stati 622.398 i cittadini con diritto di voto che hanno inviato la propria richiesta di iscrizione attraverso i sistemi digitali dell’Ufficio elettorale del governo, due terzi dei quali hanno un’età compresa fra i 18 e i 34 anni. «Jeremy non ci tiene particolarmente a vincere», ridacchiano molti suoi sostenitori, «gli basta la vittoria morale». E quella, non vi è dubbio alcuno, nessuno gliela toglie.


Record di candidate donne

Il numero di candidate donne alle elezioni di oggi in Gran Bretagna non è mai stato così alto. Lo riporta il Telegraph sottolineando che sono 29% del totale, 965 persone. Il partito laburista è quello che ha candidato più donne, 40,4%, seguito dai Verdi con il 34,8%. In tutto sono 3.384 coloro che corrono per un seggio a Westminster e questo, invece, è il numero più basso dalle elezioni del 2005, secondo i
dati della Commissione elettorale. Un fenomeno dipeso dalla convocazione a sorpresa delle elezioni anticipate da parte della premier Theresa May che non ha permesso ai partiti più piccoli di organizzare le liste.

La Ue aspetta il nuovo governo e l'orologio della Brexit corre

"L'orologio continua a correre". Il capo negoziatore europeo per la Brexit, Michel Barnier, lo ha sottolineato quando Theresa May ha convocato le elezioni anticipate. Mentre il Regno Unito vota, a Bruxelles il portavoce della Commissione tiene la linea ufficiale: "L'unico a parlare oggi è il popolo sovrano britannico. Nessun altro parla, men che meno la Commissione. L'unica cosa che possiamo dire è che siamo pronti". Nei palazzi delle Istituzioni prevale una sorta di rassegnazione nei confronti di Londra.

Il problema, spiega una qualificata fonte vicina al dossier, è che "l'orologio scorre ormai da più di due mesi", ovvero da quando Londra ha invocato l'articolo 50 per il divorzio. Un'osservazione solo apparentemente banale. In realtà lascia trapelare una certa insofferenza per le incertezze politiche britanniche, a quasi un anno dal referendum del 23 giugno. "In realtà a noi non interessa quale governo uscirà dalle elezioni" spiega la fonte, sottolineando che "in questi due mesi c'è stata una sorprendente prova di unità tra i 27" e che dalla fine di maggio "abbiamo un forte mandato per Barnier, linee guida
negoziali dettagliate e siamo pronti a cominciare il negoziato".

L'esito elettorale peggiore sarebbe quello di un 'hung parliament', una maggioranza non chiara. "Significherebbe accumulare altro ritardo", dopo che le elezioni anticipate sono state convocate da Theresa May per avere un mandato più forte ed "evitare di avere il voto in coincidenza con la fine del negoziato". La scelta potrebbe rivelarsi un boomerang. Se May si ritrovasse indebolita "sarebbe in maggiore difficoltà, perché dovrebbe sottoporre ogni passaggio a Westmninster".

Quello che è certo è che per il meccanismo del 'purdah' britannico, il vuoto di potere preelettorale, si sono interrotti anche i contatti informali. Quindi non è chiaro neppure quando avverrà il primo incontro negoziale, anche se i media britannici parlano del 19 giugno.

La Ue ha pronto uno schema basato su un ciclo di di quattro settimane: una per le discussioni a 27 per definire di volta in volta le posizioni europee sul singolo dossier, una per lo scambio di carte con
Londra, una per il negoziato diretto, l'ultima per i debriefing. Il problema è che "il tempo scorre" e se anche è vero che i 27 vogliono l'accordo, tra gli europei c'è pieno accordo che i due anni passeranno senza un accordo "sarà il Regno Unito a stare molto peggio". Anche perché i 27 hanno indicato come priorità assoluta la definizione dell'accordo sulle garanzie dei diritti per i cittadini, sul conto che il Regno Unito dovrà pagare (e che comprenderà anche gli impegni presi con la Turchia) e sulla frontiera dell'Irlanda del Nord. Dove però anche il figlio del reverendo Ian Paisley, che fu leader degli unionisti, ha suggerito che anche i protestanti faranno bene a dotarsi del passaporto della Repubblica d'Irlanda.