La violenza usata dalle autorità egiziane contro i copti domenica scorsa – 25 o 36 cristiani uccisi dalle forze di polizia secondo bilanci diversi – ha determinato pesanti conseguenze politiche nel Paese nordafricano. Ieri il ministro delle Finanze e vice-premier Hazem al-Beblawi ha rassegnato le dimissioni per protestare contro l’uso eccessivo della forza nella repressione, e la sua decisione ha trascinato tutto l’esecutivo nel caos. «Anche se il governo non è direttamente responsabile – della strage –, alla fine la responsabilità ricade comunque sulle sue spalle», ha detto Beblawi all’agenzia Mena. «Le attuali circostanze sono molto difficili e richiedono un nuovo modo di pensare e di lavorare», ha aggiunto. Un’iniziativa del tutto personale, la sua, ma che ha messo in crisi i delicati rapporti di forza interni al governo e tra il governo e i militari al potere. Sono infatti cominciate a circolare voci sulle dimissioni di tutto il gabinetto egiziano. Voci che una fonte ufficiale si è affrettata a smentire («l’esecutivo sta continuando a lavorare », ha detto un portavoce). Ma che sono state alimentate da una dichiarazione sibillina dello stesso premier Essam Sharaf, passibile di interpretazioni diverse. «Le nostre dimissioni sono nelle mani del Consiglio supremo delle Forze armate, che può accettarle in qualsiasi momento», ha detto Sharaf. La frase può in effetti significare che l’intero governo ha deciso di rimettere il mandato alla giunta. Ma secondo alcuni osservatori si tratta solo di un semplice “commento” alle dimissioni del vice-premier. Le cose non si sono chiarite nemmeno in serata, quando Beblawi ha annunciato che le sue dimissioni sono state congelate dal capo del Consiglio supremo delle Forze armate, Hussein Tantawi («non ritirerò le mie dimissioni – ha spiegato il vice-premier –, ma il Consiglio supremo militare le ha respinte e ora sono in una situazione difficile»), aggiungendo di non sapere nulla a proposito di un dietrofront di tutto l’esecutivo. Resta dunque un mistero la sorte del governo ad interim. Una situazione decisamente confusa. Che però denuncia con chiarezza la fragilità di tutti gli attori in causa. La debolezza del governo, diviso al suo interno tra un’ala più morbida che vivacchia sotto la protezione della giunta e una fronda più sensibile agli echi, in fondo ancora così vicini, della rivolta di febbraio. E la debolezza dei militari, che hanno tutto da guadagnare da un’instabilità politica che fa dell’Esercito l’unica autorità in campo. Ma che hanno anche molto da perdere se la situazione sfugge loro di mano. Se si dimostrano incapaci di gestire le tensioni interne al Paese. Esattamente come è successo domenica. Ieri, una folla commossa di oltre 20mila persone ha partecipato ai funerali di 17 delle vittime. Le esequie, ha riportato Asianews , si sono tenute nella cattedrale copta del Cairo, dove il sacerdote incaricato del rito ha definito gli uccisi «martiri che hanno salvato la Chiesa». Prima di entrare nella cattedrale la folla ha percorso il tratto che unisce l’ospedale copto in Ramses street al quartiere di Abasseya al grido «noi musulmani e cristiani siamo una cosa sola».