La strategia del Daesh. È l'Egitto la preda più ambita di chi vuole lo scontro tra fedi
L’Egitto è sotto attacco. I due gravissimi attentati siglati dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi sono sì un colpo al cuore della comunità cristiana più consistente nel mondo arabo, quella copta, ma anche di tutta la nazione nel suo insieme. In questo momento, infatti, svuotati Iraq e Siria della loro tradizionale commistione di fedi, il gigante nordafricano rimane la “preda” più appetibile per qualsiasi movimento che si prefigga di seminare il caos. Di più, per qualsiasi struttura terroristica che abbia come obiettivo quello di scatenare una guerra fra religioni.
Che i copti continuino a pagare il loro sostegno alla presidenza di Abdel Fattah al-Sisi è un teorema che ormai non regge più: da tempo la minoranza cristiana d’Egitto denuncia le negligenze di politici, esercito e polizia nel creare una rete di sicurezza rafforzata per quei 10-13 milioni di concittadini che vivono discriminazioni, abusi, violenze di intensità crescente. È vero che il colpo di Stato militare contro il presidente eletto Mohammed Morsi (islamista, membro della dirigenza della Fratellanza musulmana) avvenuto nel luglio del 2013 ha ricevuto il placet manifesto del patriarca copto ortodosso Tawadros II. E che la gerarchia copta si è detta soddisfatta dell’elezione plebiscitaria di al-Sisi nella primavera dell’anno successivo. Tuttavia, tale appoggio non ha mai assunto la forma di un assegno in bianco; i copti, al pari dei concittadini egiziani, hanno espresso i proprio dubbi di fronte alla dura repressione scatenata dal regime nei confronti di qualsiasi forma di dissenso.
C’è poi una differenza che balza agli occhi di chi osserva lo scenario egiziano: l’escalation di violenze seguita alla destituzione di Morsi è stata caratterizzata da feroci assalti di giovani e giovanissimi musulmani contro luoghi simbolo della comunità copta. Non l’azione del singolo: chiese, centri culturali, esercizi commerciali, abitazioni sono stati incendiati e distrutti da uomini a volto scoperto, incuranti di un eventuale intervento degli agenti. E le aree in cui le azioni si sono concentrate, va detto, erano “infiammabili” da decenni: Assiut, Sohag, Minia, Gharbiya. Lì, faide familiari, contrasti economici e dissidi politici avevano già prodotto fatti di cronaca nera gravi sia sotto la presidenza di Hosni Mubarak che di Morsi. Ma oggi i copti e gli egiziani tutti si devono guardare le spalle da un nemico diverso: dal Sinai, in cui è ben radicato, il Daesh punta a “sirianizzare” l’Egitto pluriconfessionale, annientandone le fondamenta cristiane e dando l’assalto all’islam dialogante. Nel Sinai settentrionale – nonostante tre anni di guerra fra jihadisti ed esercito del Cairo – il modus operandi è ben chiaro: i miliziani tagliano la testa senza remore a cristiani e musulmani, accomunati dal medesimo “peccato”: la mancata sottomissione. Tant’è che al-Azhar, il punto di riferimento dell’islam sunninta nel mondo, ha pesantemente condannato, fin dall’inizio, e con uguale forza ieri, l’emergere di questa frangia radicale.
Per il presidente al-Sisi si tratta dunque di tenere fede ai proclami che ne hanno distinto la retorica in questi 4 anni: l’ex generale si è finora presentato come guida di tutti gli egiziani. La realtà, però, racconta un’altra storia: al-Sisi si è impegnato soprattutto a tenere nel mirino una parte cospicua dei suoi concittadini. Una scelta “strategica” che indirettamente ha finito per rafforzare l’ala radicale dell’islamismo egiziano a discapito della componente della Fratellanza musulmana moderata. Non solo. L’aver indebolito l’attivismo politico e le opposizioni laiche ha sottratto forze utili a lottare contro il radicalismo. La speranza del progetto jihadista risiede in questo contesto disarmonico, in cui le libertà sono già state ridotte e violate dal nuovo regime. Quelle del Cairo, invece, nella capacità di interrompere la caccia alle streghe per concentrarsi davvero sulla lotta al terrore, in collaborazione con i partner internazionali.